“This is not a Vintage Product” era il 1998

Nell’arco della mia carriera come designer iniziata intorno al 1985, mi sono trovato diverse volte le mani sporche, per così dire, di indaco.

Una delle fasi più interessanti è stata quella del 1998/9 quando lasciai il brand MET (in cui avevo svolto il ruolo di creazione dei concetti di branding: ovvero la creazione del logo e di tutto un concept del prodotto che quando arrivai in azienda agli esordi del brand era solo embrionale) per iniziare un’avventura in un gruppo di lavoro, all’interno di un’azienda che in qualche modo aveva scelto una via più “pura” di prodotto, ovvero che intendeva sperimentare, ma soprattutto lasciare al designer spazi creativi svincolati dal fattore puramente commerciale del copia-incolla.

Era un’occasione unica.

Ricordo perfettamente che in quel momento quasi tutti gli attori Italiani della scena denim seguivano due filosofie: una, quella puramente commerciale, legata a prodotti fin troppo ricchi di tagli, accessori, lavaggi e ogni sorta di ammennicolo che personalmente non mi è mai interessata, perchè tutti si copiavano tra di loro in un’immenso gioco di clonazioni ridondanti cosa che mi ha sempre disturbato filosoficamente…  l’altra, quella dell’autenticità.

Attenzione: per autenticità non sempre parliamo di brand che, come adesso, ripropongono in chiave moderna concetti derivati dallo studio del vintage, piuttosto parliamo di un tentativo che, spesso mal riuscendo, si proponeva di riprendere il cliché “degli Americani” o dei “Giapponesi”, copiando quello che invece tali mostri sacri da ormai decenni proponevano come loro preciso DNA (e va fatto notare che oggi, dopo quindici anni ci ritroviamo, in un certo senso, allo stesso punto di prima).

Ovvio che bisognasse trovare altre vie se si voleva davvero cercare di sviluppare un progetto denim che avesse senso.

Il brand che dovevo reinventare si chiamava KBS, che di suo, non aveva alcun significato… o forse lo aveva… ma non ricordo che senso avesse: di certo nulla aveva a che fare con la mission che l’azienda aveva in mente, perchè sentii subito l’esigenza di trovarne uno.

Il primo atto fu quindi dare un senso all’acronimo e bastò solo pensare a cosa stavamo facendo: eravamo un team di persone appassionate al jeans, dal modellista al product manager… avevamo tanto da imparare ma anche tanto da dare, una sorta di insegnamento da tramandare… ma anche un’insegnamento da ricevere, imparando dagli errori e dalle personalità professionali che ci seguivano tecnicamente, ecco che quindi quel progetto era quasi come una scuola, una scuola che portava e dispensava conoscenza di un prodotto, di un tessuto, di un colore: il Blue del Jeans.

 Knowledge Blue School

K.B.S.

 Il secondo punto era quello di lavorare sul prodotto, ma ancor più sull’immagine che avrebbe dovuto comunicare la nostra capsule.

Presi la mia Fuji da 3,2 megapixel, che avevo appena comprato all’aeroporto di Gatwick (un oggetto che in quei giorni mi sembrava il futuro tecnologico impersonato) e mi misi a scattare delle foto nel piccolo laboratorio in cui lavoravamo, presi alcuni capi del mio archivio, fotografai pure quelli.

Mi misi all’opera anche su un lettering moderno, per etichette  ed hangtags, ispirato a concetti industriali che già in MET avevo iniziato ad esplorare e che è rimasto con me fino ad oggi.

Pensavo, a quel punto, che bisognava si partire dal Vintage, ma bisognava anche fare qualcosa che altri non facevano, avere coraggio… o almeno provarci.

Nacque il concetto di ADVANCED VINTAGE, una sperimentazione basata sul concetto che io avevo definito, fin dagli inizi della mia carriera, con l’acronimo M.W.D (Military, Workwear, Denim) e che ho sempre trasferito in ogni progetto che ho fatto… in qualche modo, un’essenza di questa traspare sempre, anche oggi.

 

ADV

ADVANCED VINTAGE

This is not a Vintage Article

This is not a Vintage Product

Questo era quello che dichiaravamo.

Era una presa di posizione coraggiosa, in un momento in cui tutto era definito “vintage” ma spesso era “finto vintage”.

Per noi ADV voleva dire, riprendere capi storici, rivederli e riposizionarne il contesto.

Se necessario snaturarli.

Se necessario reinventarne idealmente la ricollocazione nel presente.

I capi KBS erano “atemporali” sembravano “vintage”: ma erano modernissimi.

Nacque da tutto questo un booklet, che vediamo nelle foto sotto (insieme ad alcuni scatti del sottoscritto mentre lavorava al progetto) il quale serviva a comunicare la nostra idea, il concetto di prodotto e la filosofia che coraggiosamente l’azienda aveva sposato e approvato senza eccessive riserve, anzi con il massimo appoggio (cosa rara al giorno d’oggi dove la poca capacità di visione degli imprenditori produce, nel maggiore dei casi, un loop continuo di prodotti usa e getta, spesso senza alcun senso se non quello di intasare gli armadi degli sprovveduti che li acquistano).

Presentammo la capsule in un giorno di pioggia, davanti a una rete vendita che forse non aveva capito bene cosa stavamo facendo e cosa avevamo fatto partire con quel progetto …  ma che ci applaudì con grande trasporto e si mise subito al lavoro, portando risultati incredibili.
Penso che il modello “Spin” fu il primo five pocket Italiano con aspetto “vintage”, usurato, con rotture e trattamenti manuali ad entrare in un negozio di lusso Italiano: Raspini di Firenze.

C’erano pantaloni e giubbotti “trucker” con la cimosa in esterno, che ruotavano in senso orario e antiorario rispetto all’asse della gamba, li avevamo chiamati “Spin” e, appunto,  divennero la punta di diamante della collezione.
Laserature piazzate, con i primi rudimenti di quella tecnologia, pantaloni chino in gabardina “Super Libertador” , trattata e usurata localmente, t-shirt con grafiche stampate ad acqua e poi spruzzate con acqua stessa, per delavarle…

Presi spunto da tutto quello che mi piaceva, senza cercare nessi, senza strizzare l’occhio agli aspetti commerciali… mi ispirai alla musica (il Northern Soul, l’Acid Jazz, i Mods…) i fit regular ben bilanciati (in un momento in cui imperversava lo streetwear!) ai lettering minimalisti e industriali (che da sempre facevano parte della mia scuola di pensiero) e buttai tutto in una serie di pochi capi, ma che bastavano per lanciare un messaggio molto chiaro: se non hai coraggio di metterti in gioco e cercare di proporre qualcosa di tuo… di diverso, se non hai coraggio di rischiare, di investire, di provare e di sbagliare e se non hai il coraggio di spingere la tua rete vendita a credere in te e portare avanti le cose in cui tu credi… beh… come azienda hai già fallito nell’impresa.

Messaggio ancor più vero oggi, se ci ripenso.

KBS prosegui con un buon successo per diverse stagioni, sebbene crescendo cominciò ad essere soggetta a decisioni che purtroppo tendevano a snaturarne il concetto iniziale.

Cambiarono quindi i paradigmi che avevano costituito il team e la finalità del progetto e io lasciai il brand per dedicarmi a un progetto che oggi ritengo molto significativo per la mia carriera e che come sempre vedeva di nuovo il lavoro del “dottore” (come ero stato definito all’epoca) all’opera: rilanciare e ricreare l’indennità di un brand che aveva bisogno di rinascere sotto l’egida di una nuova era.

Un progetto donna mi attendeva.

E non sarebbe stato facile.

Per niente.

Ne parleremo.