Stato dell’arte

 


Osservo questo mondo dal 1985.

Non da fuori, non come spettatore. Ma da dentro. Con le mani immerse nei tessuti, la mente affollata di disegni, e una fame costante di capire, imparare, andare a fondo.

Ci entrai quasi per caso. O forse per destino.

Nel 1982 avevo seguito le lezioni di uno dei sarti più importanti di Treviso, un maestro.
Fu il primo a immaginare un corso di stilista basato sulla conoscenza strutturale della materia prima. Il primo a rivoluzionare la modellistica e lo sviluppo taglie, mentre le scuole usavano le “squadre”, lui approcciava il sistema con metodi quasi a mano libera e una nuova visione basata su un metodo rivoluzionario chiamato “Tecno”. Un punto fermo nella mia carriera. Formai i giovani nella sua stessa scuola per molto tempo, in qualche modo erede e portatore del del suo approccio.

Saltiamo al 1984 forse nel 1985, ero ancora sotto servizio militare, sebbene ascoltassi i Thompson Twins,  Gli Human League e  Lloyd Cole and the Commotions, mi vestivo preppy, con giacche di Madras, chino stazzonati e le Top Sider ai piedi: la foto mi ritrae con un caro amico, appassionato di moda anche lui, venne scattata a Grado, un giorno di mare, in quel pazzesco periodo che fu la Naja, che ancora oggi ricordo con grande nostalgia.
Durante una breve licenza, sostenni un colloquio con uno studio stilistico che lavorava per alcune case di moda piuttosto note. Passarono mesi — li ricordo bene, lunghi, pieni di guardie e corvée alle latrine — finché, a sorpresa, ricevetti una chiamata.
Mi chiesero di disegnare delle camicie. Una sorta di test.

Ci lavorai giorno e notte, spedii qualche decina di disegni accompagnati da relazioni scritte, una per ogni tema, scritte in quel corsivo pressoché illeggibile che ancora oggi mi caratterizza.

Non c’era internet, non c’era Instagram. Le mie uniche fonti erano le riviste che riuscivo a sfogliare risparmiando ogni lira che mia madre — che faceva letteralmente i salti mortali per mettere insieme un pranzo per i suoi figli — riusciva a passarmi.

PER LUI e L’UOMO VOGUE erano le mie Bibbie.
Le custodivo come oro, tagliavo, osservavo, studiavo.
E quando oggi riguardo quei disegni, ancora conservati con cura, mi sorprendo: non so davvero come io sia riuscito a fare tutto quello senza strumenti, senza riferimenti, senza rete.

Pochi giorni prima del congedo, ricevetti una nuova telefonata: le camicie erano piaciute, erano andate in produzione. Si vendevano bene. Mi offrirono un posto.

E iniziai così.

Non disegnando, non “creando”, come si dice oggi. Ma pulendo il sottoscala, pieno di pezze e odore di tessuti.
Roberto, Il mio maestro — perché tale lo considero — mi affidò il primo incarico: catalogare.
Conoscere le tessiture, le mani, le composizioni. Solo dopo averne classificato e toccato centinaia, mi permise di sedermi accanto a lui e disegnare la prima collezione.
Era il suo modo per insegnarmi che la visione si costruisce sul fare, non sulla superficie.

Da allora sono passati quasi quarant’anni.
Ho lavorato in ogni ambito di questo settore: dalla progettazione al prodotto finito, dalla ricerca alla comunicazione.
Ho avuto il privilegio di affiancare persone visionarie — ne cito una su tutte: Nicola Bardelle.
Ero con lui dal giorno zero, nel 1999, quando in un bar si avvicinò timidamente e mi disse che aveva un’idea. Io, proprio in quei giorni, avevo appena lasciato un’azienda per tornare a un percorso indipendente (che avevo già iniziato nel 1991 e pois sospeso, illudendomi che “essere dentro l’azienda” fosse meglio). Fu l’inizio di una grande avventura.
Nicola non era solo un talento, era un’intelligenza rara, diretta, lucida. Mi volle accanto a sé, e in quei primi anni condividemmo tutto. Ricordo le serate in archivio, lontano da direttori e manager che lui stesso definiva “figure disturbanti”, capaci solo di appesantire la visione.

Una sera, sorpreso da una mia presenza silenziosa, mentre consultavo l’archivio inimmaginabile che Nicola possedeva, lo sentii dire al telefono:
“Sto lavorando con Cristiano… sì, esatto, il poeta.”

Si scusò subito. Perché in questo mestiere, essere un “poeta” è visto come un problema.
Una parola che, in certe stanze, è diventata quasi un insulto: sinonimo di instabilità, di astrattezza, di pericolo per il business.

Ma io non mi offesi.
Anzi.

Facciamo quindi un passo in avanti, siamo nel 2012.

Il mio progetto indipendente è nato proprio come la risposta concreta a quell’etichetta.
Una scommessa personale: investire tutto quello che avevo — denaro, tempo, energie, risorse, visione — per vedere se un “poeta” può produrre concretezza, perché se non lo avessi dimostrato per primo a me stesso, non avrei mai potuto essere un professionista coerente e del valore che ritenevo di avere e con me Silvia, che mi accompagna in questo complicato viaggio.

E i clienti che oggi mi onoro di avere, in Italia e nel mondo, dimostrano che sì, è possibile. Funziona.
Non ci sono dubbi. Quei clienti condividono con noi lo spirito indipendente di 1ST PAT-RN e il voler essere se stessi, lo fanno con la selezione dei prodotti nei loro store e con la loro intelligenza di visione che si traduce in uno scambio costruttivo di idee, spunti, riflessioni.

Lo dimostrano i clienti dello store online, fedeli da più di dieci anni, con cui parlo direttamente, da qualsiasi parte del mondo mi scrivano. E con i nuovi, che finalmente decidono di andare “dentro” a cosa sia un prodotto indipendente e studiarlo, capirlo e acquistarlo.

Questo progetto non era partito come un piano B.
È stato, ed è, il mio modo di dire che la visione può diventare realtà, se ci si lavora con rigore e coerenza.
Che la libertà creativa può generare valore vero, non solo estetica.

Eppure, ancora oggi, mi capita spesso — troppo spesso — di dover “spiegare” cosa faccio.
E proprio a chi mi cerca come consulente.
Parlo con manager, imprenditori, dirigenti. Faccio colloqui.
Vengo contattato per dare una direzione, per portare visione, per “trasformare”.

Ma ho la sensazione che il significato stesso della parola consulente — e ancor più della parola designer — si sia sfaldato.

Un consulente è, per definizione, una figura esterna, che viene consultata.
Non esegue, non decora, non compone moodboard per impressionare, magari con immagini fuori contesto che proprio perché non vogliono dire esattamente nulla, abbondano quando non si ha nulla da dire (ne potrei citare decine appesi a quegli uffici stile che ho visitato).
Non porta centinaia di selezioni di tessuti a caso, facendo impazzire i fornitori, che poi non riceveranno mai neppure un metro di ordine.

Un vero consulente ascolta, analizza, comprende, trasforma.
Un designer, se davvero è tale, non disegna vestiti: disegna possibilità.

Eppure, negli ultimi tempi, i colloqui non iniziano più con la domanda:
“Qual è la sua visione per noi?”
Oppure: “Cosa pensa che potremmo fare di davvero significativo?”

No.

Mi chiedono:
“Quanti capi della concorrenza può portarci?”
“Che carrello può comporre per il nostro commerciale?”
“Mi da i capi finiti vero?”
“Vorrei fare una capsule di tre o quattro pezzi, ma deve dire tutto”

E io sorrido. Sorrido, e con educazione, rifiuto.

Perché per fare quel tipo di lavoro, non servo io.
Serve un altro profilo: ecco, magari un commerciale, magari uno di quei “guru” che si muovono bene tra showroom e database, quelli che ti ascoltano distrattamente mentre presenti una collezione e poi, con disarmante semplicità, appoggiano sul tavolo un pantalone della concorrenza dicendo:

“Ecco la soluzione. Facciamo questo, uguale, ma al 30% in meno.”

Segue battito di mani degli “yes man” di turno. Titolari compresi.

Ecco. Se siamo arrivati a questo, forse dovremmo avere il coraggio di fermarci e chiederci:
Che cos’è rimasto del nostro mestiere?
Che cosa significa davvero “creare”, “progettare”, “immaginare”?
E che tipo di futuro vogliamo costruire, se rinunciamo alla visione per inseguire “il carrello della concorrenza”?

Io continuerò a scegliere la visione. Continuerò a essere quel “poeta” che, in una stanzetta prefabbricata ricavata su un piccolo soppalco in magazzino, parlava con Nicola e immaginava un marchio che sì, forse allora era poesia…

Ma oggi è qualcosa di concreto.

Anche se lavorare con questi principi richiede rigore, studio, e una certa solitudine. Ma è lì che, da sempre, nascono le cose che valgono davvero.

post scriptum:
A una recente fiera, un collega mi disse:

“Sai, io devo pur portare a casa la pagnotta. Non me ne frega assolutamente nulla di cosa gli do. Vogliono i capi della concorrenza nel carrello? Eccoli. Tanto non capiscono nulla, e pagano pure!”

E’ con questa sua filosofia è uno dei designer più richiesti.