2011: l'anno migliore

[image source_type="attachment_id" source_value="336" align="left" icon="zoom" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] Nello Sportswear, nel jeans, se parliamo di moda, di un certo tipo di moda, di quella che "muove" in modo subliminale i trend, che lascia il segno e che cambia le cose senza farlo percepire,senza fuochi d'artificio o pagine patinate, beh, il 2011, per me, è stato l'anno migliore, come da anni non si vedeva.
In 27 anni di esperienza in questo settore raramente ho vissuto un anno denso di novità e stimoli positivi, pieno di ispirazione, di emozione, di spunti come il 2011.

Alla faccia della crisi.

Facendo un paragone col passato solo in due occasioni ricordo un simile momento creativo e innovativo.
La prima volta nel 1985 quando Jean Paul Gaultier lanciò due importanti linee: Public e JPG Jeans.
In questi contesti, ed in particolar modo con la linea Jeans egli rivoluzionò sostanzialmente lo sportswear nel contesto fashion (che poi era ai tempi, l'unico contesto credibile, se ricordate) proponendo ai suoi clienti (e al 99% dei cantanti della British Invasion che vestivano JPG dalla testa ai piedi!) che ormai da qualche stagione vestivano le sue giacche con spalla anni 40 (ispirata allo zoot suit), un progetto jeans fatto di pochi pezzi, in denim non lavato, molto "raw", semplice, minimalista e da portare con risvolto alto, in perfetto stile anni 50.
Incredibile, a vederlo in prospettiva, come un designer fashion e molto creativo come Jean Paul Gaultier, riuscisse a introdurre un denim "autentico" molto prima di numerose e titolate case che all'epoca avevano in mente solo grandi numeri e filosofie di larga scala e bassa qualità basate sulla totale mancanza di rispetto del proprio heritage: nessuno escluso. Purtroppo.

Ricordo perfettamente il suo cinque tasche, rigido, perfettamente tagliato che portavo con una giacca a doppiopetto nera, in tela di lana e rigorose Doc Martens con il puntale in acciaio esposto.

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[image source_type="attachment_id" source_value="340" align="left" icon="zoom" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] La seconda occasione, con un salto temporale, mi porta alla prima metà degli anni 90, in particolar modo in Italia quando in un certo modo, alcune case venete, Replay e Diesel (cito questi due casi specifici perchè mi colpiscono particolarmente, in quanto poi, si fa fatica a trovare "autenticità" e "filosofia" in qualsiasi altro brand Italiano negli anni a venire!) introdussero alcune suggestioni di prodotto, molto interessanti e vere, in cui intesero portare all'attenzione del mercato il "movimento di autenticità" nel jeans che il mercato Giapponese sostanzialmente da sempre aveva posto in essere con i suoi concept di "replica" e "omaggio" ai brand storici, movimento che, nato sulle bancarelle di Ueno negli anni 50 letteralmente sulle "balle" di prodotti americani lasciati li dopo la seconda guerra mondiale, continua oggi più fresco che mai.
Ricordo benissimo che mentre Diesel lavorò in modo egregio con un grandissimo lavoro di prodotto, trattamenti e labelling nella sua primordiale "Old Glory", che riprendeva appieno lo spirito ispiratore dei Giapponesi, traslandolo in un contesto basic, davvero evoluto, ma pur sempre originale, nel caso di Replay, sebbene le fonti fossero le stesse, questo movimento si trasmise in maniera subliminale all'interno della collezione dove tutto si fuse nella collezione e dove vennero aggiunti importanti spunti presi dal mondo militare, dal workwear e dall'outdoor.
In tal senso Claudio Buziol, operò il suo ineccepibile e incredibile lavoro di direzione artistica, lavoro che ebbi poi modo di vivere personalmente parecchi anni dopo, nell'immensa fortuna di poter collaborare con lui ad alcuni concept di prodotto mood board e nello studio del labelling per Replay, nel 2005.
Concept che (guarda caso) nella sua idea volevano riportare in auge spunti presi dal workwear e dall'outdoor in un momento in cui Replay, secondo lui, era in una fase di riflessione e forse di stasi, aggiungo io, anche pensando ad alcune chiacchierate che ebbi occasione di fare con Claudio.
Comunque, tornando a noi, verso la fine degli anni 90, appunto, coordinando perfettamente il team creativo, egli riuscì, rispetto a Diesel, a dare al prodotto quella "vendibilità" che invece Old Glory non riuscì a trasmettere.

Pensandoci oggi, Old Glory era quindi più "vera" e di conseguenza più difficile da capire, mentre Replay era più "commerciale", sebbene ogni dettaglio, ogni materiale e molto dello stile erano perfettamente coerenti con i capi a cui si ispiravano, in alcuni casi al limite della perfezione e il lavoro grafico fatto sul labelling da Tom Garner incarnava perfettamente questi aspetti.

Successivamente Diesel, a mio avviso, fece suo il percorso di "commerciabilità" del prodotto, portando molto di Old Glory nella collezione principale, producendo quello che secondo me è stato il suo miglior momento storico, prima di perdersi in un reticolo di proposte e di divagazioni fashion/trendy che l'hanno fortemente spostata in un ambito di grande confusione, almeno per chi intende il jeans in un certo modo.

E io lo sono.

Quello che accade oggi è, invece, molto diverso. Ed è fondamentale prenderne atto, studiarlo, analizzarlo.

Il movimento di brands e designer che ha letteralmente riempito i blog (ineccepibile strumento di comunicazione, ma soprattutto di "condivisione") e creato dal nulla nuovi retail shop, molti dei quali online (aspetto importantissimo) che hanno modellato (in senso positivo) la loro clientela educandola alla riscoperta di pezzi definibili "staple" nella storia del denim, dell'outdoor e del workwear, è molto diverso da quello che erano i "brand", e non solo loro, nei due periodi sopra citati.

Quello che nel nel 2011 si è consolidato in pieno creando, secondo me, un nuovo "standard", è un movimento di grande conoscenza costruttiva, tessile, del dettaglio, della grafica e della "filosofia" di prodotto (senza dimenticare anche l'aspetto della comunicazione e della presentazione del prodotto alle fiere di settore) e di grande condivisione; un movimento che non si sbaglia certo a definire di élite, dove le "tendenze moda" sono scomparse, inghiottite dalla propositività di un nuovo modo di fare il jeans e di coordinarlo con lo sportswear, fagocitate dalla voglia di revisione e "scardinamento" di limiti come quelli "commerciali" (spesso dettati dalla profonda mancanza di cultura del retail, ma anche in molti casi dall'incapacità di una certa "rete vendita" per certi versi obsoleta e travolta dagli eventi, di ritornare alla sua funzione principale: cioè vendere, proporre, scendere in strada) e portate avanti da un gruppo di marchi e di designer che è riuscito a riscrivere perfettamente i mondi del workwear, dell'outdoor e del jeans, partendo dall'accurato studio del loro passato e riproponendoli con forza e con determinazione sotto una nuova veste.

Se guardiamo dal mio punto di vista, quello del designer, questi aspetti ci accorgiamo che per certi versi essi sono, come dire, logici. Infatti per chi ha lavorato negli anni seguendo una sua personale filosofia (e io, sebbene nel mio piccolo, mi ritengo tra questi) basata sulla ricerca, sullo studio dell'archivio storico e sulla documentazione cartacea, piuttosto che sullo "shopping" e la consequenziale "copia carbone" dei capi acquistati, questo metodo non è nuovo, mentre per molti è la vera novità.

Ma, indipendentemente da questo, di cui ho già scritto, volevo soffermarmi invece sugli aspetti di stile che mi hanno colpito, ispirato e fatto riflettere.

Intanto, e prima di tutto, la grande rimonta del capospalla, della giacca e del gilet, elementi fondamentali (e troppo spesso oscurati dai bottoms) che nel 2011 sono invece emersi in modo spettacolare.

Se pensiamo solo al lavoro che Nigel Cabourn ha fatto nel riproporre un capospalla evocativo, vero, ricco di dettagli costruito partendo dal capo "vero" e facendo l'immane sforzo di ricostruirlo nel pieno e totale rispetto della sua originalità, adattando solo il fit, alle esigenze attuali, ma anche qui: non certo tradendo e deformando l'essenza del prodotto nel cercare di seguire l'assurdo filone dello slim/skinny fit (che sul capospalla ha fatto più danni che mai) ma lavorando in modo subliminale sulle proporzioni per "modernizzare" la vestibilità: non certo per adeguarla alla richiesta di un mercato che vede oggi il capospalla trattato come "accessorio" e successivamente stravolto dall'esigenza di fit a mio avviso improponibili.

Oppure all'incredibile (e solo ultimamente riconosciuto anche in Europa, grazie appunto a quella rete di negozi intelligenti e coraggiosi) lavoro di Daiki Suzuky per Woolrich Woolen Mills (la cui ultima stagione S/S 2011 rimarrà nella storia a dispetto del nuovo percorso del nuovo designer di WWM, Mark McNairy, che personalmente mi lascia un pò perplesso, per l'approccio troppo skinny e per certi versi glamour, dato al prodotto, fermo restando la grande predisposizione del designer per le calzature) ma anche per la sua Engineered Garments che non è certo nuova a chi segue da anni questo movimento elitario.

Daiki non solo ha preso spunto dalla sua esperienza di retailer, formata negli anni 70 e 80 in Giappone, sua patria natale, e dove per primo importò e mise in vendita i prodotti di Woolrich made in USA, ma quando si è stabilito a New York ha letteralmente creato un nuovo tipo di prodotto: non solo nello stile, come vedremo poi, ma soprattutto nel coraggio di rimettere in discussione la storia del workwear, dell'outdoor e per certi versi anche del tailoring, definendo di fatto quello stile che oggi chiamiamo "Americana", che effettivamente è stato portato in rilievo, commercialmente, in modo molto forte, nel 2011.

Non posso negare che questo percorso di revisione e interpretazione mi ha fondamentalmente sempre appassionato (anche in virtù di certi "maestri" come Paolo Albertoni che mi hanno fortemente formato nei miei primi anni di lavoro come assistente e educato a questo approccio in interminabili sessioni notturne di analisi del vasto archivio vintage su cui, ai tempi, si lavorava) se si vanno a vedere certi pezzi della mia collezione personale Norwin del 1999 (con i Fatigue mod. 0001 in raso sovratinto come best seller della stagione o la giacca 2823 in fustagno foderata in tela usata comunemente per le tasche del jeans) o di Fourface che disegnai nel 2004 si possono certamente trovare spunti e condivisioni comuni con questa visione di prodotto, soprattutto nelle giacche... come dire, se si parte progettualmente da un punto comune preciso l'arrivo è quindi comune: cambiano solo il modo (e i tempi) in cui eventualmente si arriva.

Ma è certamente stato Daiki, con il suo modo di riportare in auge certi pezzi, a sdoganare nel 2011 anche da noi (EG in Giappone ormai è marchio consolidato!) un certo modo di intendere l'outdoor e il workwear e se è emerso il suo punto di vista è perchè più di tutti ha saputo trovare in chi lo segue e veste i suoi capi il giusto portavoce: il buon sell out dei suoi capi in Europa ha fatto il resto.

Pezzi come la giacca da "caccia" o il pantalone "fatigue" e il suo modo di giocare con le tasche e di posizionarle estrapolandole dal loro contesto, per poi rimetterle in un'altro o di fregarsene letteralmente delle "vestibilità", permettendo a ognuno di indossare il capospalla come meglio preferisce, scalando una taglia o aumentandola, in virtù del fatto che le sue giacche non sono "giacche" nel senso stretto del termine: ma giocano invece un ruolo molto importante nella costruzione dello stile globale del prodotto.

Le sue giacche, appunto, guardiamole bene: si possono usare come un blazer, come una giacca da lavoro... possono essere portate sopra a un gilet, ma lo stesso gilet può anche essere portato sopra la giacca stessa, in un richiamo al concetto di travelling e al mondo militare che io ho sempre amato... e anche qui la multifunzionalità delle tasche mutuate dai gilet tattici o da quelli comunemente definiti "safari" è emblematica dell'approccio raffinato che Daiki sa dare al suo prodotto.

L'uso delle fantasie poi è un elemento fondamentale.

Engineered Garments più di ogni altro ha saputo nell'ultimo anno con le due stagioni uscite, far passare un messaggio preciso e sempre più innovativo (che peraltro è sempre stato presente fin dalle origini, ma secondo me mai così chiaro e definito come nelle ultime due stagioni) nell'uso dei checks, di volta in volta mutuati dai madras o da disegni "flannel", ma anche righe, fiori: sempre perfettamente abbinati.
La camicia in oxford, unita o rigata, con il tipco taglio 19th Century è poi ineccepibile.

Ma il 2011 ha sublimato anche molti altri marchi di riferimento, quasi tutti anglosassoni, ricordo il lavoro di Universal Works, Heritage Research, Utile Clothing, Folk, Garbstore... tutti forieri di questo grande lavoro di revisione e modernizzazione del workwear e ovviamente, molti Giapponesi: non certo nuovi a questo approccio, ma certamente ora più "sentiti"; a me sono piaciuti i ragazzi di Beams Plus che hanno proposto capi stupendi mutuati da pezzi classici e rivisti con grande intelligenza, si veda l'utilizzo del pile in certi gilet che si ispirano a un certo outdoor tecnico, ma urbanizzato.
Ma anche il nuovo corso di Nigo, ex creatore di Bathing Ape che ha traslato in modo ineccepibile nella sua nuova collezione i mondi work, denim e military abbandonando finalmente il fashion: se ne sono accorti in pochi sembra.

Il 2011 è stato anche l'anno del chino, nelle sue varie logiche.

Per me questo aspetto è stato fondamentale perchè in questo ambito finalmente si è tornati a fare ricerca.
Tralascio volutamente una sorta di imbastardimento del chino fatto dai brand "modaioli" che lo hanno stravolto con improponibili vestibilità aderenti, soprattutto per l'uomo, in una sorta di "offesa" della tradizione, una metodologia questa da cui ho sempre preso ragguardevoli distanze.

Parlo di chi, come nei marchi sopra citati, ha saputo proporre un chino autentico, ben conscio però che anche qui, dettagli, tessuti (soprattutto), confezione e un certo studio accurato del fit andavano rivisti e guarda caso anche qui le tasche giocano un ruolo fondamentale, perchè vengono riprese da capi militari e applicate su chino molto istituzionali: non è facile, ci vuole cultura, bisogna avere "spessore".
Nel denim, si è rivisto davvero un ritorno all'autenticità, espressa in modo egregio da numerosi brand che hanno saputo reinventare letteralmente il primordiale cinque tasche.

Anche qui, l'eccellenza viene da brand che hanno saputo essere diversi dalle storiche etichette Giapponesi: attenzione, non che i Giapponesi abbiano perso la via della ricerca, tutt'altro, ma ormai ci hanno abituato all'eccellenza ed è ovvio che in questa fase il mio sguardo si sia posato maggiormente in Europa e negli States .

Infatti, nel caso di brand anglosassoni o americani, in molti casi si è inteso costruire il denim con dettagli ispirati dal workwear del 1800 e questo è stato un primo interessante approccio e credo che gente come quella di Rising Sun possa dettare legge in merito a questo approccio.
Vicino a queste contaminazioni "originali" (delle origini) che poi ovviamente si ritrovano anche nelle linee di ricerca dei brand storici (Levi's Vintage Clothing su tutte) ho trovato in Raleigh, Natural Selection e pochi altri una visione davvero interessante del mondo denim.
In Italia Nicola Bardelle di Jacob Cohen è riuscito nella sua linea Premium, a offrire un denim autentico e nello stesso tempo moderno: anche qui il dettaglio del labelling è stato determinante, avendo infatti la fortuna di aver lavorato su questo progetto ho cercato di trasmettere lavorazioni di costruzione dell'etichetta tessute che ormai erano dimenticate, come quelle a navetta. Così come i ragazzi di Redux, con i quali ho collaborato nella stesura e definizione di certi dettagli grafici del labelling, hanno ben mescolato un certo workwear (la cucitura a tre aghi) con il mondo del cinque tasche, riuscendo a definire qualcosa di davvero nuovo e diverso nel panorama internazionale, che personalmente ho apprezzato.

Il 2011 ha finalmente visto, infine, l'inizio di un percorso di definitivo tramonto delle grafiche ostentate "per forza" su t-shirt, felpe o sul capospalla, dei loghi, delle stampe e delle applicazioni poste solo per "brandizzare": di questo sono felicissimo, sebbene nel tempo posso dire di essere stato un precursore di questo tipo di personalizzazione e non escludo certamente che tornerà prima o poi o che in certi specifici casi sia elemento importante (si pensi al lavoro, eccellente, di The Real McCoy: che sublima in modo emozionante, sui suoi capi, la ricerca storica della grafica di ispirazione militare) ma davvero adesso non è più il caso.
Piuttosto spostiamo il tiro sull'aspetto importante degli "interni", dello studio sull'etichetta e sul cartellino che sono fondamentali per la distinzione del prodotto e dove brand come RRL hanno davvero segnato la "tacca" di riferimento: con gusto, equilibro e tanta ricerca.
Anche in questo, i brand Italiani sono carenti: tranne rare eccezioni l'etichetta concettuale o il cartellino ricercato vengono visti come "un costo in più" e non come un valore aggiunto.
Il 2011 ha insegnato e dimostrato invece che "fuori", nel mondo reale, questo valore aggiunto ha fatto la differenza nel prodotto, ha raccontato storie, ha espresso al meglio il messaggio del designer.

Un 2011 quindi che per me si chiude in modo positivo, per una serie di motivi.
In primis aver toccato con mano un grande fermento creativo, che c'è, permane e sta crescendo fortemente nonostante la crisi (che non tocca certamente i brand citati!) e che serve a dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che chi innova e propone trova sempre i suoi spazi e la sua clientela rispetto a chi segue, affannandosi, le richieste di un mercato "commerciale" sterile e vecchio.

In secondo luogo, e forse è questa la cosa migliore, ho potuto apprezzare il lavoro di colleghi che ho sempre stimato e seguito e che in alcuni casi mi hanno ispirato ma soprattutto mi hanno spinto a rivedere in retrospettiva il mio lavoro e di rivalutare il mio operato, con una ricerca storica (su me stesso) molto personale e anche affascinante, tra disegni e progetti consegnati nel tempo, vecchi faldoni pieni di schizzi, vecchi bloc notes disegnati in viaggio e in ufficio... e di poter di conseguenza rafforzare con grande cognizione di causa il servizio reso ai miei clienti.

Definitivamente: un 2011 molto proficuo, non avrei potuto sperare di meglio.

Questo è anche l'ultimo post del 2011 su K-Workshop.

So che non sono riuscito, quest'anno a scrivere tutti gli articoli che avevo in mente, ed erano veramente tanti, credetemi... ma il poco tempo a disposizione e i tanti progetti hanno catalizzato altrove tutte le mie forze.
Prometto che l'anno prossimo mi impegnerò di più e di certo ci sarà qualche novità, molto interessante, che sarete i primi a conoscere.

Buon 2012 a tutti!


Thank You Kapital Brand to feature my vintage items!

[image source_type="attachment_id" source_value="332" align="left" icon="zoom" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] It's funny, recently I was looking inside my archive to find a field jacket that remind me a very nice and unique jacket that I have bought about one year ago in my last trip to Japan, in the nice Tokyo shop of Kapital, for me the most important Japanese brand actually in the market concerning the remake and the re-modelled vintage cloths.

I plan to make a recension showing the "old" item and the way Kapital "re-model" and "re-design"the old garment to post very soon here.

Kapital is very unique: they don't make replica's they re-invent old items to create new pieces, they de-construt a military clothes and create a suit jacket, and so on.
They are a kind of sensei for me.
Recently I have find so nice to participate their vintage contest in the Facebook profile that Mr. Eric Sato manage in a perfect way.

I have posted few of my items and I discover that they have choose them to post in the Global web site! Wow!

http://kapital-global.jp/en/2011/07/26/lover-of-vintage-christiano-berto/

I'm honored and proud about this choice, and I wish to thank all the Kapital staff for the very nice idea of the contest!

Arigatou Gozaimasu!!!


USAF Wind Resistant Sateen OG 107 Ground Crew Jacket | A review by Stock Number designer

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Uno dei capi più interessanti facenti parte della mia collezione è questa giacca codificata come “Wind Resistant Sateen OG 107 Ground Crew Jacket” appartenente al personale di terra USAF.

Realizzata in pesante raso militare, tono di colore “sage green”come da specifiche USAF visibili in etichetta, elemento di estrema importanza per la datazione e la codifica dei capi operativi, tecnici e da lavoro delle varie forze armate, specialmente statunitensi (in quanto non tutti i paesi inseriscono nella codifica dei capi l’anno di produzione) questa giacca, è estremamente interessante per un numero di motivi.

In primis è una delle prime produzioni, datata 1957 e consegnata dalla Southern Athletic Co. un contractor che ha fornito anche altre tipologie di giacche tra cui i Parka Cold Weather N3B utilizzati dagli equipaggi dei bombardieri B-52 in Viet Nam e durante tutto il periodo della guerra fredda, così come per la protezione degli operatori delle basi artiche che spesso li utilizzavano “fuori ordinanza”, ma anche altri pezzi come i Parka M-51.

In secondo luogo abbiamo di fronte un pezzo personalmente customizzato dal proprietario e nelle condizioni perfettamente originali, senza alcun tipo di modifica post dismissione, vediamo infatti che l’operatore ha applicate a sua cura delle bande di materiale rifrangente tipo 3M sia nella parte posteriore a forma di “T”, che nella parte anteriore e sui polsi.
Si tratta di un accorgimento molto importante per chi operava nei pressi delle piste di atterraggio dove era fondamentale il concetto di “high visibility”.

Ho potuto analizzare con cura questo materiale e valutarne la particolare consistenza e rifrangenza che surclassa qualsiasi altro tipo di materiale commerciale da me visionato.
Possiamo anche notare che i badge identificati e i gradi sono ancora presenti, in particolare le due strisce sopra i taschini hanno un raro esempio del ricamo “catenella” (chainstitch) che attesta il periodo storico del capo.

Inoltre spesso queste giacche si trovano con tutti i badge tolti (probabilmente per rivenderli singolarmente) e questo ne rende il valore molto basso.

In terzo luogo il tessuto: armatura raso di cotone/nylon con filati a titolo di altissima qualità, la morbidezza di questo tessuto al tocco è ancora oggi eccezionale dopo 54 anni e non è descrivibile a parole purtroppo.
La mia ricerca ha portato in evidenza che un altro contractor USAF: la Hygrade Rainwear Mfg. Corp. avrebbe (il condizionale è d'obbligo) realizzato delle versioni in popeline poly/cotone che potrebbe essere quello utilizzato anche sui parka M-51, nel classico colore grigio/verde.

Questa giacca è dotata di bottoni interni che servono all’eventuale applicazione di un lining imbottito per la protezione dai climi più freddi: purtroppo oggi è sostanzialmente impossibile trovare ancore delle Ground Crew Jacket con il loro interno.

Ad ogni modo una fodera cucita, in poly/cotone, è comunque presente, come si vede nella foto.

Altro dettaglio importante è la presenza della coulisse di regolazione interna, sul punto vita, spessore di un centimetro con tasselli di rinforzo in pelle a doppia ribattitura.

Ma l’elemento distintivo di questo capo è il collo che contiene un cappuccio anti-pioggia, sempre in raso militare e con costruzione ergonomica.
Caratteristica di culto: la cerniera con tiretto “tranciato” prodotta dalla CROWN, con “tira-zip” aggiuntivo in pelle (stessa tipologia dei rinforzi coulisse) cucito con rinforzo a "triangolo", inoltre il collo, nella parte sotto, è rinforzato dal classico motivo “zig-zag”.

La tipologia a quattro tasche, chiuse da bottoni a pressione risponde alla specifica di praticità e utilità della giacca, che non aveva (per le tasche) funzione di “contenimento” per quanto riguarda equipaggiamenti (come invece altre tipologie dotate di tasche a “soffietto”) e aveva quindi lo scopo di contenere documenti, un notes per prendere appunti, ordini di servizio, ecc. si nota infatti l’accesso per la penna nella parte superiore.

All’interno del collo, oltre alla splendida etichetta, il cui valore è praticamente il valore più intrinseco della giacca stessa, si notano iscrizioni a pennarello di vario tipo, come il nome (Johnson) e alcuni codici. Il riporto del nome che appare anche nella striscia identificativa ricamata è molto importante, perchè conferma la configurazione originale e quindi che le applicazioni sono nate con la giacca stessa e non applicate dopo.

I bottoni in nylon, a quattro fori, sono molto particolari e va detto che la riproduzione attuale non sarebbe molto economica dato l’alto quantitativo di pezzi da riprodurre per questo particolare materiale military grade, spesso tali bottoni sono riprodotti in materiali poveri come il poliestere.

Capi come questo rappresentano senza ombra di dubbio le colonne portanti della ricerca applicata all’abbigliamento di tipologia militare.
La perfetta vestibilità (vedi ad esempio lo studio sulla manica “raglan”, di grande comodità durante l'utilizzo sopra capi protettivi come le maglie in lana) i dettagli di estrema semplicità e funzionalità, l’eccellenza degli accessori che devono offire assoluta affidabilità d’uso (vedi la zip prodotta dalla Crown, scorrevolissima e senza un briciolo di ossidazione dopo l’evidente utilizzo operativo di questo capo) sono aspetti che oggi vengono completamente tralasciati dalle industrie di abbigliamento moderne.

La cura di dettagli come quelli che sono presenti in questa giacca, che potrebbero fornire infiniti spunti e idee sono spesso dimenticati, o meglio: non vengono quasi considerati e solo pochi li sanno percepire.

Ho avuto dei “maestri” che nel lavoro di design mi hanno educato a conoscere e studiare il passato, per poter meglio comprendere il futuro e questo oggi è diventato per me e l'approccio standard nel mio lavoro, coem anche un punto di forza e di appoggio ogni qualvolta apro uno dei miei blocchi da disegno e mi appresto alla parte più affascinante, stimolante ed emozionante che è quella di design preliminare: ovvero quando comincio a delineare i tratti del progetto di disegno della collezione.

Poter toccare con mano capi come questo, tenerli sulle ginocchia mentre disegno, e ancora, indossarli e utilizzarli nella vita di tutti i giorni, è come un flusso di potente creatività che confluisce poi nel lavoro che si materializza sulla carta e che io sono orgoglioso di poter fornire ai miei clienti, che mi danno questa incredibile opportunità.
Alcuni li chiamano capi di “ricerca”, li tagliano, li scuciono... li violentano. Per copiare tessuti che i produttori del Far East non sapranno mai realizzare come gli originali, per semplificare i dettagli togliendone il loro fascino intrinseco, per riprodurre sommariamente forme di cui non sanno l'utilizzo finale...

Io li chiamo capi del “sapere”... e per loro ho il massimo rispetto.

Sempre.
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Anorak Limited Edition Project X Fourface | Winter 2004-5 collection "Kubelwagen" Jacket

[image source_type="attachment_id" source_value="303" align="left" lightbox="true" size="medium"] This is a jacket that I have designed about seven years ago for my beloved Fourface collection, ended too early.

It’s an interesting item for a numbers of reason. First, the design is an homage of an historic military parka and this is his pure soul that the wearer can feel it.
Second the roots of this jacket are very important. It is the rare Wehrmacht WWII winter parka, sought after in the Battle of Bulge and made in plain color or with the WH splinter camouflage design.

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[image source_type="attachment_id" source_value="304" align="left" lightbox="true" size="medium"] I use to call also "The Kubelwagen Jacket" because a jacket like this was often worn by driver of the German Jeep so called "Kubelwagen", below a Kubelwagen in the desert theater as driven by a patrol of German Afrika Korps.

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[image source_type="attachment_id" source_value="305" align="left" lightbox="true" size="medium"] This is a rare piece of kit that German Army have worn in several campaign, it is perfect engineered as any part of the German soldier in the WWII (German soldier of land, sky and sea was the most advanced soldier in the world during the WWII) splinter camo was perfectly developed for the European theaters, it has a reversible side where you can use also in white color, so the perfect combination for winter campaign especially after the Normandy battle.

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[image source_type="attachment_id" source_value="306" align="left" lightbox="true" size="medium"] I have bring my inspiration after study very well the original piece.

As usually, and who know me know very well my modus operandi: I don’t stole ideas, I don’t copy, I don’t make replicas.

I study, I learn: and, after, I design.

The result of my research is a sum of elements to improve the appearance of the original jacket in the modern urban contest, as usually I intend fashion as something that you have (must) to use everyday, that you have to wear without any kind of problem and often in heavy duty situation.
I think that what is important is that a garment have all the things you need in your daily usage: from the best material, to best sewing and the best design.

[image source_type="attachment_id" source_value="307" align="left" lightbox="true" size="medium"] Starting form a cotton/nylon with waxed coating and a woven piquet made by an Italian top level manufacturer of fabrics I have put together a number of elements from my archive, even from real pieces, and also from bibliography.

I have bring the double-sided-protective closure and the pocket design of the original coats and use it for my homage startpoint. Instead to have only two pocket I apply two more pockets on the arms, inspired by DDR tank crew jacket of the late 80’s and the fur neck was bring form a US NAVY Deck Jacket, as the material, that is the same of the Navy Deck Jacket.
The lining is detachable, and a profile with a reflective trim was added to have more high visibility function when you are walking in the street: just turn the cuff and you are signaled when the light of a vehicle is coming on.

Every garment of the ANORAKS limited Edition line X Fourface collection was provided with a fly carrying a description of the original piece that was homaged and some bibliographic reference to understand the item.

[image source_type="attachment_id" source_value="308" align="left" lightbox="true" size="medium"] The line was not really understand in the market those days. I think the problems comes from the low knowledge sales forces and the lack of faith and patience of the manufacturer that was searching for easy money and stop the line after a couple of season, they really didn’t not trust me and understand my work.

My opinion is that you can’t make easy money with those piece of history. You just have to respect. And first of all respect the person who buy it and understand the heavy work that there’s behind.

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[image source_type="attachment_id" source_value="309" align="left" lightbox="true" size="medium"] Also in my honest opinion, I have always put my customer in mind, and have respect their request, when they were searching for an authentic line of military inspired clothes: I made it! This is how I like to work.

However, I think if clothes like this and other pieces of the Anoraks limited (we were made a total of eight pieces scheduled, like the below pictured "Fallschirmjager Coat" and the "Japanese Coast Guard Deck Jacket") will be right now offered they will have more success.

(archive pictures from my bibliography are © of Mr. Werner Palinckx and Schiffer books)


Piccole considerazioni sulla filosofia dell'abbigliamento "Military Inspired"

[image source_type="attachment_id" source_value="289" align="left" lightbox="true" size="medium"] Negli ultimi tempi, complice anche il fatto che Internet veicola milioni di informazioni in tempo iper-reale e l’accesso continuo e costante a questi dati rende tutti (apparentemente) più eruditi, riscontro che la tematiche “militare” (nelle sue espressioni e differenziazioni army, navy e, meno, quelle air force) è diventata il fiore all’occhiello di più o meno quasi tutti i marchi.

Così mi accorgo, giorno per giorno, che chi fino a ieri vendeva felpe modaiole e ha fatto la sua fortuna con i “loghi” (margherite, banane e/o effusioni varie sponsorizzate del calciatore di turno, oppure jeans con i brillantini e le borchie o magari anche autentici, se vogliamo, ma ispirati a ben altre filosofie: oggi é diventato (anche lui!) un esperto del mondo “militare” e questo onestamente, mi fa un pò sorridere.

Lo dico con simpatia, naturalmente, perchè mi piace confrontarmi.

[image source_type="attachment_id" source_value="290" align="left" lightbox="true" size="medium"] Entrare con cultura nel merito del mondo dell’abbigliamento ispirato dalla filosofia del prodotto militare non è facile, non basta comprare qualche capo vintage, magari la solita Field Jacket o il solito Peacoat da copiare per diventare esperti, non basta strappare le pagine dei vari magazine di ricerca Giapponesi e darle al modellista, per poter affermare di conoscere, anche solo in minima parte, la filosofia che sta dietro alla progettazione e costruzione all’abbigliamento militare.
E onestamente, quando guardo in giro, quando mi confronto con negozianti, clienti e colleghi… io di stilisti, designer e grafici esperti (a parole, nota bene) ne vedo sempre di più.

Cascano tutti però quando chiedi con che materiale è fatta una Zip General del 1974 montata in prima istanza su un pantalone M-51 Cold Weather, U.S. Army Issued, in armatura raso rovesciato di cotone-nylon, si, perchè per la maggior parte di loro il mondo del militare è solo quello di capi con parecchie tasche, qualche dettaglio in nastro canvas, un pò di bottoni.
Soprattutto è comprare i capi di qualche brand importante e copiarli… simpatico vederli con le valigie piene, tutti arruffati, al Narita!

In realtà mi stanco presto quando consulto i social network o la rete… perchè quello che trovo è solo la fiera del trito e ritrito, sebbene, e questo va detto, ci sono eccellenti eccezioni, anche e soprattutto di casa nostra, che hanno la mia giornaliera e rigorosa visita e ai quali tributo il massimo rispetto.
Ce la metto tutta, credetemi, per cercare di seguire, di capire, di ragionare sul fatto se sono io che guardo troppo oltre o se invece il guardare troppo indietro (nel senso di poter avere la fortuna di consultare soprattutto tanta bibliografia e capi storici) sia giusto o sbagliato… e quindi se mi scandalizzo ancora (e qui sbaglio) per il modus operandi del mio settore: fare il viaggetto di ricerca, riempire la valigia di capi, portarli in azienda, copiarli alla meno peggio.

Campionario fatto.

[image source_type="attachment_id" source_value="291" align="left" lightbox="true" size="medium"] Ma lavorare col “mondo” militare, a mio modo di vedere, ma credo di non sbagliare, vuol dire ben altro: ed è il modo in cui ho imparato dai miei maestri sul finire degli anni 80, che ancora oggi non posso che ricordare con emozione e ammirazione quando leggo gli appunti che mi facevano frettolosamente buttare giù di notte, quando mi chiamavano alle tre tre del mattino, io giovane assistente che dormiva in una maleodorante pensione da camionisti (quello potevo permettermi… e ringrazio ancora di aver vissuto quei momenti impareggiabili che rivivrei da capo anche subito) per raccontarmi come il giorno dopo avremmo lavorato sui Mackinaw modello 1942 o sui Trench Coat della prima guerra mondiale…

Allora so che parlare di prodotto “military inspired” è ben altro rispetto a quello che oggi tutti professano.

Serve ben altro.

Cosa? Bibliografia ho detto… non le riviste, sebbene ve ne siano di validissime. Ma non basta. Parlo di libri storici, di archivi originali, di fotografie storiche, di interviste a chi ha indossato davvero quei capi.
Archivio poi, che significa andare oltre i soliti pezzi. Fare ricerca “trasversale”, fare percorsi nuovi.
Viaggi? Si, certo, andiamo pure tutti in processione nei santuari della moda ma cerchiamo di guardare oltre. Io da vent'anni vado e guardo oltre: forse per quello ho pezzi in archivio che non sono poi all’ordine del giorno… pochi, ma buoni. Anzi, molto buoni. E non dirò certo qui dove li ho trovati.

Gli accessori, elemento vitale, parte essenziale.

[image source_type="attachment_id" source_value="292" align="left" lightbox="true" size="medium"] Quanti dei presunti capi militari che si vedono in giro hanno poi un progetto grafico coerente e filologico? Accessori autentici, etichette che non siano prodotte a basso costo (tanto è un’etichetta, ci sente dire, no?) cerniere e bottoni “veri”? Nei materiali, nella manifattura? Pochi.
Quanti designer o graphic designer hanno mai toccato con mano un'etichetta con armatura navetta, tessuta con filato trilobato? Quanti sanno come si data un capo militare? Pochi, io penso. E anche qui credo di non sbagliarmi troppo.

Eppure ogni giorno ci sono dei designer, ed io mi sento, umilmente, tra questi, che indipendentemente dalla moda corrente e dalla prospettiva di "mercato" cercano di fare il meglio possibile per trasmettere nel loro lavoro ed ai loro clienti (cosa importantissima) questi valori di originalità e di rispetto, parola fondamentale, perché il primo atto che mi sento di fare, quando prendo in mano un pantalone M-51 Cold Weather per cercare di capirlo, è rispettarlo: dal tessuto, all'etichetta, passando per la zip.
E nel fare questo rispetto il mio progetto, rispetto (soprattutto) il mio cliente, rispetto me stesso: perché so di essere intellettualmente onesto.
E ogni giorno imparo qualcosa, perché dopo 25 anni di lavoro in questo settore sono ancora come quel ventenne che dormiva nel letto sfondato di quella pensione da pochi soldi: avido di conoscenza.

Sono pochi questi designer, alcuni hanno oggi un'età di tutto rispetto e scrivono pagine epiche… una volta ce n’erano molti più, qualcuno è stato mio maestro.
E sono ancora loro, io credo, che oggi, nella personale ed evolutiva, modernizzata, visione del “prodotto militare”, sanno davvero fare il nuovo e sanno riprendere le filosofie più autentiche per portarle a noi oggi: fresche come una rosa.

Altro che vintage.

Qui si parla di futuro.

E il futuro passa per la conoscenza, la cultura, la ricerca e per il rispetto.

Un pò meno per lo shopping, ma questa è solo la mia modesta opinione.


The origin of the Stock Number logotype

[image source_type="attachment_id" source_value="283" align="left" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] Stock Number Inspiration | This is a special post because I want to show what drive the first inspiration of Stock Number logotype.
Some customer ask me why I have changed the iconic military style from black/army green to black/white minimal type, I'm happy to explain my creative approach about the Stock Number graphic philosophy.

Usually the NATO items have special code to identify them, my inspiration comes from those code and from the military watches box.
Normally the General Purpose watches box are made in kraft cardboard, and I don't like to much this combination, because it a little be abused.

So, starting from this need, I have looking in my archive discovering an about twenty years old Tutima BUND Chronograph issued in the late 80's to a McDonnell Douglas F-4 Phantom II pilot of the RECCE Airbase of Leck Germany, and provide to me with is original box and papers.
I have seen the box of this watch and I was flashed about the clean and simple graphic.

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[image source_type="attachment_id" source_value="284" align="left" lightbox="true" size="medium"] Starting from this point I have worked around the lettering mixing the USA issued General Purpose alignment and capital letter, with black and white colors and simple, clean design.

Finally I have bring a little of the red/orange print and use for some print and accents on the graphic of collection too.

This is the right Stock Number philosophy: starting from archives, and evolve to a new vision of graphic in military, utility and supply wear.


A rare example of graphic design

[image source_type="attachment_id" source_value="279" align="left" lightbox="true" size="medium"] This is another piece of history, pictured in the Canadian Museum of Juno Beach. It is a parcel, made in kraft paper, with very nice print and stamps.

A infinite source of inspiration.

I note that lot of company, want to imitate this style, but they aren't good to respect the correct balance of font, colors and especially the correct stamps.

I have worked three years to developed the analog/digital technic to reproduce this design, I call this method "homage" and I think is the only way to perpetuate the history through intelligent fashion.


Klean Kanteen: pure utility

[image source_type="attachment_id" source_value="275" align="left" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] This is my favorite utility water bottle for traveling or walkin. It is a Klean Kanteen 27-Ounce in military green, purchase at the Tokyu Hands store in Tokyo | Because I like to read recensions before to acquire a new tool, here excellent product review of wired.com:

"We were able to pour boiling hot water into its medium-sized mouth with nary a spill but sipping high quality H2O from it while hiking didn’t splash water all over our face. It showed no cracks after freezing and survived being dropped from a two-story building with only a few dents. And it’s the toughest we tested too: after repeatedly running it over with a VW Beetle failed to phase it, we ended up taping it to the tire to ensure its destruction. Mission: failed. The Kanteen only ended up becoming moderately crushed but still useable"


Plasmir Milgraph: the ultimate military chrono from Mr. Takeshi Sato.

And the story of RXW seen by a collector and a designer that love Japanese "homage" philosophy.

[image source_type="attachment_id" source_value="262" align="left" lightbox="true" size="medium"] This is another wonderful watch made by the master collector Takeshi "Ken" Sato in the middle of 2000. His aim was to create the Ultimate Military Chronograph, and he made it.
Takeshi Sato, is a well know collector of watches, with probably one of the best vintage collection of Rolex, Omega and Panerai in Japan.

His aim was to share his knowledge and his culture with other people that may not acquire such a rare and impossible to find watches.
He start to produce limited editions watches in a number of 100/200 pieces to sell in his workshop and over the web, there was few very interesting things that I have understand in Mr. Sato philosophy, first of all the japanese way to make the so called "homage".

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[image source_type="attachment_id" source_value="263" align="left" lightbox="true" size="medium"] Working as fashion designer for over 25 years I understand that for Japanese people making homage is a tribute: is something very important in order to respect the homaged item, brand or model.
Japanese people love to collect original and vintage clothes, especially military garments and vintage jeans form the "three mothers": Levi's, Wrangler, Lee.

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[image source_type="attachment_id" source_value="264" align="left" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"] They love to make perfect and evolved replicas of those vintage clothing and they made in the better way, nobody else in the world can make those replicas like the Japanese does.
I can suggest to you to see the fine work of "Real McCoy" manufacturer with his fine replicas of Army, Navy and workwear clothes, or to walk in Ueno Market, to see company like Burgus and many others, that can reproduce the perfect Blue Jeans, as the "three mothers" make in 1940.

With all of this knowledge to share it was normal that the same happen in horology.
And Mr. Sato have realized this. In the best made ever seen in the world.

He not only create homage of iconic and mysterious watch, which are only owned probably by two or three collectors in the world, like the Rolex 1690 produced for U.S. Navy in only two prototype, and sold by Antiquorum Auctioneers, but use the best and most actual technology available to produce them.

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[image source_type="attachment_id" source_value="265" align="left" lightbox="true" size="medium" autoHeight="true"]Introducing the Plasmir Milgraph, you can read below the specification that can overlooking most of the well known Swiss brand on the market:

• 316SUS Surgical steel case, non magnetic, made from a block of steel and thousand tons pressure machinery, hand made.
• 5-Lock crown (the most famous swiss diver in the world has twin-lock crown)
• 1000 (80.000A/m) Gauss antimagnetic protection with soft-iron in-case
• Plasmir™ dial (cut with *plasma* cutter: never seen in the world) with Super Luminova illumination as strong as "plasma"
• Seagull VS 1962 mechanical hand wound movement
• Hands with H3 tube illumination system as US ARMY specification
• Connolly leather strap: the same leather used in the Ferrari F1 car

Other watches are the Subpro Marine, that was inspired by the controversial Rolex 1690 produced for U.S. Navy, as above detailed.
In this model he have bring also inspiration form the 3-6-9 dial of the early Explorer design and fit a reliable automatic swiss movement in a antimagnetic case made in SUS316L and protected from magnetic filed over 80.000 A/m or 1000 Gauss! This is a privilege that only three Swiss brand in the world have now in catalog.
I own this watch, and aside of few other new and vintage quality Swiss brand... I can certificate the manufacturing is incredible at the top of specification.

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[image source_type="attachment_id" source_value="266" align="left" lightbox="true" size="medium"] Another incredible watch is the Zeromaster.

A fusion of the "Zerograph" and the "Master" watch, made in the end thirties, is also antimagnetic at 50.000A/m and had a rotating bezel to calculate the time in three time zones.

Those picture are © from the incredibly well made Alan's Vintage watches blog that I have visited in order to learn more about this model and that have guided me to acquisition of an example of the Zeromaster.

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[image source_type="attachment_id" source_value="267" align="left" lightbox="true" size="medium"] What is incredible is that lot of people, and most of them are collectors, call this watches fake!
They are totally missing the Japanese culture that I have described above, and they don't know nothing about the philosophy of Mr. Sato.

I am a collector of watches from over 12 years and I own Swiss, German, Japanese made watches... from the professional type to the military and astronautic type, most of them are rare and vintage, most of them are new: I am proud to put at the side of them the RXW Plasmir Milgraph, the Subpro Marine Evolution or the Zeromaster and I don't call them fake: I call them art.

Last, this is a very source of inspiration for Stock Number the military inspired collection that iI design, because they are fine example of the best material, the best manufacture, the best design... and the best price possible in his market level.

A very Stock Number philosophy.


KBS | A project ended too early

[image source_type="attachment_id" source_value="257" align="left" lightbox="true" size="medium"] This was one of the early experiment in making something new in the field of upgraded vintage product, because in the end of nineties I was searching to be different from those " fake vintage brand" that was coming up like mushrooms... just to copy the very fine Levis Vintage Clothes project that I was paying very deep respect.

I have start design this line in 1999 till 2001 for an important Italian company. They got this acronym (KBS) that was totally meaningless and their idea was to make something new in denim field. First of all I give a meaning to the KBS acronym and I create the story of Knowledge Blue School that was very successful.

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[image source_type="attachment_id" source_value="258" align="left" lightbox="true" size="medium"] I have invented the "Advanced Vintage" concept, all the garments was processed to look as 3 - 6 - 9 months older, but the fit and style was totally redesigned in a more modern way.
The best seller in top shops of the world (I remember a wonderful window in the Raspini Firenze shop, in Florence) was the "Spin" five pocket: a five pocket made in 14,5 Oz denim fabric designed with the selvadge *in outside* and with a spin turning of the leg, that was exactly the same of the one you can see from a Levis 501 of the early fifteen.

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[image source_type="attachment_id" source_value="259" align="left" lightbox="true" size="medium"] Other interesting items was the working jacket made in heavy army green wool, like the military mackinaw... too cool!
The MODS jacket too and what about the "Knowledge is Power" T-Shirt? Another best seller too!

Unfortunately, this line was too advanced for the market at that time and the project was close too early, but I still have in my archive some nice piece!