GTA: un percorso condiviso sin dall'inizio
Quando penso alla collaborazione con GTA Pantaloni, torno con la mente al 2013.
Un anno di passaggi, di scelte, di incontri che - come spesso accade in questo mestiere - nascono da rapporti di fiducia e da legami costruiti nel tempo.
Fu un agente di tessuti, una di quelle persone che attraversano la vita professionale di un designer come fili silenziosi ma decisivi, a mettermi in contatto con i fratelli Tognolo.
L’azienda, storica nella manifattura del pantalone, attraversava un momento di crisi. C’era bisogno di ritrovare una direzione, ridefinire l’identità del prodotto e ridare coerenza all’immagine di marca. In breve, serviva un nuovo punto di partenza.
Un nome che doveva tornare a significare qualcosa
La prima cosa che notai, entrando in azienda, fu il nome: GTA.
Un acronimo misterioso, privo di una spiegazione condivisa persino all’interno dell’azienda. Mi colpì quella assenza di senso: come può un marchio sopravvivere, se il suo nome non comunica nulla?
Decisi di scavare. Camminai fra i reparti, osservai il personale al lavoro, sfogliai archivi, toccai tessuti, e scoprii un patrimonio immenso. L’azienda era nata nel 1955, e portava con sé un bagaglio di saperi, di materiali e di stile che andava solo riascoltato, riportato alla luce.
Da quella scoperta nacque una nuova interpretazione:
GTA = General Textile Archives. Archivi Tessili Generali

Un nome concreto, coerente, evocativo.
Non più un acronimo vuoto, ma una dichiarazione di identità: un’azienda che custodisce e rielabora la propria memoria tessile.
Questa scelta, apparentemente semplice, si rivelò decisiva soprattutto sul mercato giapponese, dove GTA aveva una presenza già solida ma priva di un racconto coerente. In Giappone, la coerenza e la concretezza contano più di ogni altra cosa: dare un significato reale al nome fu il primo passo per restituire credibilità e autenticità.
Il logo seguì naturalmente quel percorso: un carattere industriale, pulito, con riferimenti al periodo di fondazione. Sullo sfondo, una fotografia stilizzata del loro capannone, costruito proprio negli anni Cinquanta. Un segno autentico, legato alla sostanza, non alla moda del momento.
E come accade sempre, da un nome che ha un significato nascono prodotti che hanno un significato. Funziona così.
Un nuovo equilibrio fra classico e contemporaneo
La mia visione era chiara sin dall’inizio: la collezione classica, frutto di un lungo lavoro dei fratelli Tognolo, doveva restare intatta. Era solida, coerente con il suo pubblico, e non aveva bisogno di rivoluzioni. Lì dove serviva agire era invece sulle linee casual e denim, svuotate nel tempo di forza e riconoscibilità.
Nel mio archivio personale trovai un punto di partenza perfetto: un pantalone militare Gurkha dell’esercito inglese, datato 1955.
Un dettaglio simbolico: lo stesso anno di nascita dell’azienda.
Quel modello diventò il cuore della collezione successiva.
A Pitti Uomo, nello stand GTA, il nuovo Gurkha fu esposto nella sua reinterpretazione contemporanea: costruito con un tessuto diagonale giapponese cimossato.
Allora nessun marchio proponeva ancora un pantalone di quel tipo.
Solo due anni dopo, il Gurkha sarebbe diventato un capo “di moda”, ripreso e replicato da molti — ma GTA fu la prima a presentarlo in quel segmento, con una coerenza che nasceva dal rispetto della propria storia.

E anche in questo caso, la chiave fu la stessa: fiducia e rispetto reciproco.
Solo quando l’azienda decide di credere nel proprio consulente, e di accettare un cambiamento profondo, le cose iniziano davvero a muoversi.
Il nuovo progetto denim: il ritorno alla manifattura
Lo studio del denim, invece, partiva da un approccio completamente nuovo per l’epoca.
Gli epigoni di Jacob Cohen si moltiplicavano, e tutti cercavano di copiare quel lavoro che avevo costruito anni prima con Nicola Bardelle.
Decisi quindi di cambiare prospettiva: il lusso non doveva più essere legato al denim come simbolo del logo o della decorazione, ma come ritorno alla manifattura.
Il labeling, il design del prodotto, ogni dettaglio seguì questa direzione.
Scoprii nei vecchi archivi un prototipo di tasca quasi dimenticato, ideato dai fratelli Tognolo anni prima, e lo riadattai alla quinta tasca del denim - la coin pocket - rendendolo un segno distintivo immediatamente riconoscibile.
Il rombo, che racchiudeva l'anno di fondazione divenne elemento decorativo, dal disegno tasca non più ricamato, ma "intarsiato in pulito" fino alla fermatura dell'angolo tasca.
Lavorando con alcune eccellenze del settore, sviluppammo bottoni in rame grezzo, etichette in pelle pregiata e cartellini con finiture speciali, tutti coerenti con un unico messaggio, inciso anche graficamente nei materiali di comunicazione:
“The ultimate luxury is authenticity.”
Il progetto denim, denominato BLUE EDGE, conquistò l’attenzione del mercato.
Ricordo perfettamente una mia visita allo showroom del loro importatore di Tokyo: i buyer dei principali retailer giapponesi si avvicinavano, osservavano i capi e facevano complimenti sinceri.
Erano colpiti dal modo in cui un marchio italiano era riuscito a coniugare precisione industriale, gusto europeo e rispetto per la cultura autentica del prodotto.



L’attenzione al dettaglio e la libertà dell’archivio
Il lavoro successivo fu un esercizio di equilibrio fra tecnica e memoria. Studi di tasche, proporzioni, materiali. Una revisione storica del chino, non solo attraverso nuovi tessuti, ma anche lavaggi e trattamenti calibrati. Tutti i dettagli che introdussi provenivano da capi del mio archivio personale, mai dalla concorrenza.
Questo punto è cruciale: non si copia ciò che già esiste, non si ricicla un’idea altrui. Si studia, si osserva, e si trasforma la conoscenza in progetto.
Al contrario, chi mi succedette in azienda scelse la via più comoda: portare modelli da copiare, spesso già superati, ed è ovvio, sono come minimo della stagione corrente.
Resto della mia idea: un marchio marchio non cresce imitando — cresce solo quando crea, in un equilibrio tra attenzione al mercato e ricerca propositiva.

Un rapporto fondato sulla fiducia
Con i fratelli Tognolo e con il loro eccezionale staff si instaurò un rapporto autentico, fatto di confronto e di rispetto reciproco, a sancire il fatto che l'armonia è fondamentale, ho avuto esperienze in aziende dove la gelosia e la competizione hanno fatto danni seri ai marchi.
Da un lato, la loro esperienza manifatturiera, la serietà e la dedizione.
Dall’altro, la mia visione di consulente, chiamato a rivedere, correggere, ridefinire i punti chiave del prodotto e della comunicazione.
Fu un dialogo costante, mai un monologo.
Il coraggio dei Tognolo nel credere nel mio lavoro e nel concedermi spazio creativo portò risultati concreti: un ritorno d’immagine, di coerenza e di credibilità sui mercati internazionali.
Eredità e continuità interrotte
Questo progetto rappresenta uno dei pilastri del mio metodo di consulenza: partire sempre dalla storia del cliente, cercarne i significati profondi e farli riemergere in modo coerente e contemporaneo.
È l’unico approccio che funziona.
L’eredità di quel lavoro, purtroppo, non proseguì.
Scelte successive, dettate da direttive commerciali non allineate alla visione originaria, tantomeno alla mia, portarono l’azienda verso altre direzioni e a collaborare con figure che non condividevano lo stesso linguaggio progettuale stabilito inizialmente e con le quali non volevo avere nulla a che fare.
La coerenza, ovviamente, si perse.
Rimane, tuttavia, il ricordo di un’esperienza importante: due imprenditori coraggiosi che, in un momento di difficoltà, ebbero la forza di cambiare tutto da zero, credendo nella collaborazione e nella ricerca.
Un esempio raro, che dimostra come la fiducia reciproca sia la vera base di ogni rinascita.
Ridefinire un marchio: Jacob Cohën
L’incontro di due sogni nel 2000
È l’inizio del Duemila quando Nicola Bardelle mi contatta in un momento che, per entrambi, segna un passaggio: veniamo da esperienze diverse nel mondo del denim, ma con un’idea simile che ribolle sotto la pelle. Lui, con un progetto ambizioso per dare al jeans un valore più alto; io, con la competenza tecnica, la sensibilità per i dettagli e la capacità di trasformare idee in linguaggi tangibili.
Nicola possedeva una pezza di un tessuto giapponese con cimosse, al tempo non era così comune (anche li fu uno dei primi) e il desiderio di ridefinire il concetto stesso di jeans. Ma non bastava costruire un buon pantalone: bisognava costruire un’immagine, un’identità coordinata, coerente e capace di resistere al tempo.
Quando mi chiese di collaborare, non mi fece la proposta di un semplice incarico: mi invitò a entrare in un sogno condiviso, a essere parte di una squadra in cui avremmo potuto crescere insieme. Più che un cliente, vidi in lui un compagno di viaggio, investimmo reciprocamente.
Un approccio che guarda al passato per sorprendere il presente
Decidemmo di partire da una rinascita del linguaggio del denim: non cancellare la storia del brand, ma liberarlo da una patina obsoleta acquisita negli anni ’80. L’idea era chiara - un’operazione di sottrazione creativa - prendere il DNA di Jacob Cohën delle origini (che si rifaceva all'opulenza degli anni 80 appunto) e spogliarlo (con cura) di orpelli non coerenti.
Il primissimo studio di immagine coordinata e del packaging presero ispirazione da un’estetica industriale-minimalista: linee pulite, superfici materiche. All'inizio cercai una sobrietà che però trasmettesse forza, presenza, coerenza.
Quasi subito però, progettai la celebre “J” stilizzata — un segno forte, semplice, quasi un’emozione grafica. Nicola la amò subito: la voleva ovunque, simbolo e icona del brand. Da lì, lavorammo alle linee PREMIUM, che rimandavano direttamente ai primi concept grafici, e alla linea Couture donna, alle linee ACADEMY, ispirate all’eleganza dell’IVY League, ognuna con il suo carattere e la sua coerenza visiva.


Dettagli che parlano, prodotti che raccontano
Con Nicola esplorammo materiali e soluzioni che all’epoca sembravano audaci. I bottoni gioiello, presentati su un rotolo di velluto come orologi preziosi, erano una piccola dichiarazione d’intenti: ogni elemento del capo meritava attenzione, dignità e cura.
Le etichette, i cartellini, le finiture, ogni punto contava. Le etichette tessute con definizione altissima prodotte dal miglior etichettificio Italiano, Etigroup, carte testurizzate con grafiche evocative, inserimenti di pelle pregiate nell'etichetta retro-cinta (che tristemente alcuni addetti ai lavori, definiscono, penosamente, "salpa"): tutto doveva “parlare”, ma senza urlare. Il mio compito era trovare l’equilibrio fra il gesto espressivo e il buon gusto, affinché i dettagli emergessero senza risultare ostentati.
Nel design dei capi, spesso era un dialogo continuo fra me e Nicola: mi mostrava schizzi e idee su cui si lavorava sempre con grande rispetto reciproco. Molti pomeriggi e molte tarde serata, quando restavamo soli in azienda, lontani da pressioni commerciali, furono il terreno fertile di quelle intuizioni che sono ancora oggi identità del marchio.
Nicola mi diceva spesso, con un sorriso:
«Il vero successo di un brand è quando un imprenditore come me riesce a tradurre concretamente le idee di un creativo fuori dagli schemi come te.»
Ed è proprio qui che risiede l’essenza del mio lavoro di consulente (che lui aveva perfettamente capito): fornire idee creative fuori dagli schemi, che poi, insieme al cliente, si ridefiniscono e trovano la loro forma finale, capace di soddisfare tutti i criteri, anche quello commerciale.


La visione di Bardelle: un lusso sostanziale, non apparente
La sua idea era rivoluzionaria: un denim di lusso, sì, ma non vestito a festa. Non una facciata narrata da marketing sterile, bensì un capo che parlasse di valore reale, di qualità, finiture, identità. Un denim che fosse lusso autentico (e su questo termine ci sarebbe da disquisire a lungo, specialmente nel mondo del denim) non solo estetica.
Credo che in me vide un alleato per sostenere questa visione: uno con cui confrontarsi, discutere, costruire e litigare se necessario. Non un antagonista, come spesso viene visto il consulente esterno quando entra in un gruppo.
Il rapporto era di fiducia: Nicola non imponeva, piuttosto proponeva; io non eseguivo, ma interpretavo. Così il marchio prese forma come un progetto vivo, a differenza degli epigoni che ancora oggi vivono del percorso tracciato da Nicola e dalla sua visione, ma mancano assolutamente di qualsiasi logica creativa, storica, progettuale.
Oggi sul mercato svariati marchi tentano di ottenere lo stesso successo che ha oggi Jacob Cohën, spesso con tentativi goffi e anche al limite del buon gusto: sono semplicemente arrivati in ritardo.
Perché già nel 2012 Nicola ebbe l'intuizione: cambiare tutto. Ripartire da zero. Riscrivere il codice del marchio completamente.
Mi venne affidata una sfida incredibile. Che purtroppo non si concretizzo mai.

Eredità, memoria e promessa
Nicola morì tragicamente il 3 agosto 2012, in un incidente stradale a Saint-Tropez, mentre si trovava in vacanza con la famiglia.
Fu una perdita profonda, umana prima ancora che professionale.
La sua eredità è doppia: quella concreta, nei capi, nei segni del marchio, nell’attenzione al dettaglio che resta codice riconoscibile di Jacob Cohën; e quella ideale, nel modo di intendere il rapporto fra creatività e business, fra etica e visione. Molti definivano Nicola un uomo controverso, a volte difficile -ed è vero- ma era anche uno pronto a sostenere i suoi partner, a discutere con passione, a difendere l’onestà del progetto.
Un ricordo che porto dentro: pochi mesi prima della sua scomparsa, mi chiamò e disse con voce calma:
«Hai inventato il denim con tante etichette… ora ti chiedo di ...»
Era il momento di evolvere, di rendere il marchio ancora più essenziale, ancora più maturo. Pensammo a un restyling coraggioso, che avrebbe “riscritto la storia di Jacob Cohën a un livello superiore”.
Quel progetto oggi giace, forse, in un cassetto dell’azienda, ma sicuramente nel mio archivio: mai portato avanti da chi seguì, mai forse neppure visto, certamente mai realizzato, ma rimane promessa e traccia di un’intuizione mai spenta.
Lavorare con Nicola mi ha insegnato che la fiducia non è accessoria, ma essenziale. Che chi affida un progetto creativo non deve temere, deve credere, comunicare, collaborare, non intralciare.
E che il consulente non è un esecutore, ma un compagno di viaggio.
Quando due visioni si incontrano senza schermi, nascono capi che raccontano e marchi di valore che, anche quando cambiano, portano dentro il seme di quell’alleanza originaria.
Le parole scritte sulla sabbia. Un ascolto personale di “Ashi ni Suna”, tratta dall’album di imminente uscita SLOW

È uscito il brano “Ashi ni Suna” di Small Circle of Friends, e ho avuto l’onore di ascoltarlo in anteprima qualche giorno fa.
Ho scoperto la musica di Satsuki e Riki quasi per caso, sfogliando le pagine della rivista giapponese 2ND. Un’intervista mi colpì per lo stile elegante e autentico con cui si raccontavano. Solo più tardi scoprii che Satsuki è anche una fashion designer, e che il suo stile — asciutto, essenziale, profondamente poetico — è da me profondamente ammirato.
Da alcuni anni collaboriamo anche per il mio progetto 1ST PAT-RN. Con grande generosità, mettono a disposizione i loro brani come colonne sonore dei miei video di backstage. Un percorso in cui stile e musica si incontrano, e si completano.
In realtà, senza saperlo, il mio primo contatto con la loro musica era avvenuto molto prima, in modo quasi subliminale: “Sitting on the Fence”, un loro brano degli anni ’90, era incluso nella compilation Multidirection di Brownwood Records.
Un filo invisibile, come spesso accade con le cose che contano davvero.
Nel tempo ho recuperato quasi tutti i loro lavori in formato CD e ho avuto la fortuna di assistere a due loro serate a Tokyo: una al mitico Bar Music, e un’altra in un piccolo bar/ristorante di cui purtroppo non ricordo il nome, ma che custodisco nella memoria come uno dei momenti più intimi e coinvolgenti vissuti con la loro musica.
Small Circle of Friends è un progetto che mescola con naturalezza elettronica, jazz, campionamenti scelti con profonda conoscenza (come certi frammenti di Lou Rawls in “Lover Holidays” e già si capisce…), e un’estetica sonora fatta anche di brevità: brani di uno o due minuti che sembrano pensieri, respiri, appunti musicali.
Io li chiamo condivisioni di creatività: piccoli mondi sonori che stimolano i sensi e, almeno nel mio caso, fanno nascere idee, visioni, dettagli dimenticati.
Quando progetto, sono estremamente esigente sul piano sonoro — e a dire il vero lo sono quasi sempre. Le mie playlist, i miei vinili, le mie audiocassette degli anni ’80 o i CD sono pensati per essere un’estensione naturale di carta e matita.
Ogni collezione nasce anche da un tappeto sonoro: musica e memoria intrecciate nella ricerca.
Quando ascolto i frammenti emozionali di Small Circle of Friends — che sia in auto, nel mio studio o seduto su uno sgabello al Bar Music di Shibuya — non importa: è come se fossi sempre in viaggio.
E quel viaggio porta alla luce un tipo di euforia creativa che nessuna sostanza potrebbe mai dare.
Perché solo la musica può innescarla: sinapsi fatte di ricordi e stimoli che si trasformano in collezioni, grafiche, concetti, tessuti.
Ho tradotto il testo di “Ashi ni Suna” e con sorpresa — o forse no — mi ha colpito nel profondo.
Parla di due persone che camminano lungo la battigia, in una spiaggia fuori stagione. Parole scritte sulla sabbia, che il mare cancella. Una distanza sottile tra ciò che si sente e ciò che si riesce a dire.
“Il mare di marzo è gelido,
camminiamo fianco a fianco stringendoci nelle spalle.
Manteniamo quella distanza incerta,
tra lo stare vicini e non esserlo affatto.”
Ecco, in questa frase mi sono riconosciuto, da ragazzo, in uno dei miei primi amori. Cambiava la stagione — era estate, non marzo — ma la sensazione era la stessa: due persone, una spiaggia, parole non dette, e un addio.
Questi momenti restano.
Fanno parte di quelle esperienze che solo la musica, a distanza di anni, riesce a riportare alla luce nella loro piena vivezza.
E mi viene da dire: per fortuna.
Perché se le abbiamo vissute, e se una musica, un testo o anche solo un frammento ne risveglia il ricordo, allora quel momento ha avuto un valore immenso.
Se non conoscete il progetto di Satsuki e Riki, vi invito a scoprirlo.
Su YouTube trovate anche video tratti dall’album FUTURE, che è tra i miei preferiti, e il brando DAI DASSOU è un emblema per me, o STEREO, solo per citarne un'altro.
Ma davvero, tra le decine di lavori come tutto il progetto LoopLaunch o il lavoro che fanno con RADIO STUDIO75 è difficile scegliere, è un viaggio infinito.
E ora arriva SLOW, il nuovo album.
Un consiglio che vi do dal profondo del cuore: ascoltatelo con calma, e lasciatevi attraversare.
AI, scrivimi un post per Linkedin pieno di piagnistei. Grazie

Adoro l’intelligenza artificiale. La adoro da un punto di vista professionale. La paragono all’invenzione del desktop publishing, che ha rivoluzionato la vita di designer, grafici e fotocompositori.
Quando acquistai il mio primo Mac, ricordo che portai in fotocomposizione alcune pellicole per il logo di una camiceria piuttosto importante sul mio territorio, stampate con una LaserWriter 300. Spiegai come funzionava il Mac e ricordo che i fotocompositori e i grafici che lavoravano su macchine grandi come un frigorifero con lo schermo a fosforo verde e in cui, per scrivere una singola lettera, dovevi digitare una stringa di cinque o sei caratteri e avevi sì e non sette tipi di font possibili, vennero in studio da me e rimasero a bocca aperta.
Il Mac era uno strumento che davvero aiutava a lavorare bene, a crescere professionalmente, a risparmiare tempo: certo, dovevi saperlo usare, dovevi capire come funzionava il suo sistema operativo, dovevi studiarlo e comprenderlo, perché poi usarlo sarebbe stato di una facilità sorprendente.
L’AI per me è uguale.
Per certi aspetti è imbattibile, perché partendo da un tuo concetto, un’idea, una bozza di testo (io solitamente prima di iniziare a disegnare, redigo delle vere e proprie guidebook testuali, quasi dei manuali operativi avanzati, che sono il percorso che poi le aziende seguono passo passo), l’AI diventa un partner eccezionale.
Gestione dei testi, correzione bozze, analisi dello scritto, riassunti dettagliati e concisi che trasformano una lettera confusa e piena di ridondanze in un set di punti chiari.
Ma mi fermo qui. Onestamente, nel mio lavoro creativo, devo dire che molto raramente un task di prova sulla creazione di un qualsivoglia tipo di design utile e fungibile ha dato risultati concreti.
Può essere brava a fare una ricerca di colori, a identificare una palette, quello sì.
Ma non chiediamole, per il momento, altro.
Come vedete, non cito neppure chi usa l’AI per produrre e creare dei deep fake dei meme.
In quei casi, l’AI è il peggior nemico da combattere.
Tornando al mio settore, sto notando un movimento ben chiaro che si manifesta principalmente su LinkedIn: l’uso dell’AI e della sua capacità di creare dei testi partendo da prompt specifici.
Questi post li riconoscete subito, sarebbe davvero ridicolo se chi li legge pensasse che siano scritti da una persona. In genere sono ideati, a livello di prompt, da addetti ai lavori che, per qualche motivo, necessitano di fare engagement su alcune tesi fini solo a creare interessi personali (e sterili discussioni, ovviamente, perché spesso questi post non dicono nulla di concretamente tangibile, ma sono abili nel fomentare il populismo più becero) intorno a certi temi.
Non esprimono un loro testo, ma affidano all’intelligenza artificiale dei prompt tipo:
“Scrivi un post su LinkedIn sulla situazione di crisi della moda, addossando alle aziende produttrici tutte le responsabilità, mentre ai retailer tutte le possibili disgrazie”.
In pochi secondi, esce un testo, a volte anche con immagine specifica, palesemente AI.
Il testo è quasi sempre corredato dalle immancabili icone che l’AI mette all’inizio di ogni paragrafo di default.
Si tratta di testi banalissimi, sempre con finali “emozionali” che puntano a creare engagement e che promuovono sostanzialmente luoghi comuni, populisti, spesso scollegati dalla realtà.
L’AI, per redigere questi testi, non fa altro che capire chi glieli chiede, di cui ha imparato il modo di scrivere, le idee e le opinioni, e non fa altro che assecondarlo, pescando sui database, sui social e sulle discussioni dei blog una serie di dati.
Li mette insieme e li confeziona per una audience di follower che poi commentano con battiti di mani e condivisioni e le solite frasi di acclamazione e inchino.
Magari qualcuno abbozza uno sgrammaticato commento (usate l’AI come correttore, credetemi, è utile) e altri cercano di emulare il guru del momento che ha scritto il topic, giusto per non essere da meno, ma mai contestando o portando dati di confronto. Figuriamoci proposte.
In tali categorie davvero c’è di tutto: ma quelle più agguerrite e organizzate in questo momento sono le agenzie di rappresentanza particolarmente dell’abbigliamento, che si trovano a vivere una forte crisi dovuta al fatto che molte aziende si stanno organizzando internamente, altre hanno capito che le stesse agenzie non operano quasi mai per la casa mandante, ma per il cliente e via discorrendo, tutte cose che si sanno da anni, se non da decenni, ma che nessuno dice: per primi i retailer, che sono i appunto i primi a parlar male degli agenti.
Queste categorie di distribuzione, cercano in tutti i modi di farsi vedere, di emergere dalla cacofonia di piagnistei generalizzati che il nostro settore, purtroppo, vive. E nessuno lo nega, certo.
Però, il continuo piangersi addosso perché non si vende, perché il consumatore (brutto termine, vero?) non compra, perché il retailer, poverino, non ce la fa più (eppure su Instagram si fa vedere con rigorosa bottiglia di vino da qualche centinaio di euro appena sbocciata) e così via, non porta a nulla.
E poi è sempre colpa delle aziende cattive che si permettono addirittura di ricaricare i prodotti! Ma scherziamo?! Dovrebbero regalarli. Perché è il retailer che rischia tutto!
Non si citano mai le eccellenze che ci sono nel nostro panorama, retailer intelligenti, visionari e coraggiosi.
Quelli che investono nei brand indipendenti, che fanno ricerca vera, che vanno in giro a consumarsi le suole delle scarpe per studiare, scoprire a volte, ma soprattutto per parlare e discutere chi sta facendo un lavoro indipendente che, guarda caso, è riconosciuto a livello internazionale (e per forza, se mandi 50 inviti ai retailer italiani per venire a visitare lo showroom di Parigi e ne viene uno solo, come fai poi a pensare di essere presente in Italia? Però piangono che non si vende) chi produce idee, spunti e, guarda caso, margina il giusto, e fa sell-out.
Si citano sempre quei moribondi poveri retailer “che sono costretti a sottostare ai budget, o che per comprare A sono contratti a ordinare decine di migliaia di B, che sanno già che non si vende”.
Come se non si potesse invece dire no.
No. Solo No. Non mi va più bene.
Basta imposizioni dalle case mainstream o "low price and high margina", basta budget imposti, basta comprare “per forza”.
Voglio che il mio negozio sia sano, voglio che il mio cliente acquisti prodotti che non ha già a decine (e per forza non compra più!), che compri anche meno, ma meglio. Voglio comprare solo quello che mi serve.
Ed è una sfida certo. Costa, certo. Ma l'alternativa non è il piagnisteo e men che meno il post-datato, da spostare rigorosamente il giorno prima che scada. Ovviamente prima di partire per le vacanze in qualche bel resort o magari, Ibiza (va ancora di moda Ibiza? Boh.)
Ma i guru della distribuzione la pensano diversamente, perché se si tolgono loro i budget, si tolgono anche le provvigioni, e se si tolgono le imposizioni e le forzature, le provvigioni calano.
Quindi mettiamo in difficoltà i retailer, facciamoli indebitare, poi in qualche modo si risolverà, “tratteremo noi con la casa madre, stai tranquillo”.
E combattono con uno strumento meraviglioso che è l’AI, dimenticando che quando postano questi testi preconfezionati, c’è, fortunatamente, un intero segmento di addetti ai lavori, incluso i retailer seri e professionali di cui sopra, che li riconoscono a occhi chiusi.
(nota: il testo è stato scritto da un umano, ogni errore e typos è solo mio).
“La gente non compra prodotti. Compra storie.” Sì, ma anche no.

C’è una frase che, ormai, rimbalza ovunque.
La si sente ripetere come un mantra, usata per spiegare tutto e il contrario di tutto.
Va bene per le presentazioni aziendali, per le caption social, per dare un’aura di significato anche a ciò che ne ha poco.
È una frase che suona bene. Fa colpo.
Ed è questa:
“Le persone non comprano più prodotti. Comprano storie.”
Per un po’ l’ho ascoltata. Poi ho iniziato a osservarla meglio.
A guardare i contesti in cui viene detta, le situazioni a cui viene applicata.
E più passava il tempo, più mi sembrava una scorciatoia retorica, un modo elegante per non parlare del prodotto.
Per evitare di confrontarsi con la materia, con la qualità, con l’identità vera delle cose.
Così ho iniziato a ragionarci sul serio.
E a chiedermi: ma davvero le persone comprano “storie”? E che tipo di storie?
Cosa intendiamo quando parliamo di “storia dietro a un prodotto”? Siamo sicuri di sapere cosa significhi?
Siamo sicuri che quella “storia” esista davvero — e non sia solo un racconto ben confezionato?
Una storia non è un titolo. Non è un claim d’effetto.
Non è una bio costruita per far bene su un pitch.
Una storia è qualcosa che si può toccare. Che si riconosce, che si dimostra.
Che non ha bisogno di essere raccontata perché si sente.
Pensiamo a un bambino che, crescendo, si perde dentro un’enciclopedia illustrata di storia.
È sempre stata lì, sulla libreria, da quando suo padre l’aveva comprata. Passa le ore a guardare divise militari, cuciture, dettagli. Si sofferma sul giugno del 1944.
Lo colpiscono soprattutto i civili: i volti, gli abiti, il silenzio dentro certe foto. Non sa ancora cosa farà da grande, ma quelle immagini restano.
Alcune in particolare — con quelle giacche, quei tessuti, quelle cravatte — restano come impronte.
Trent’anni dopo, diventato designer, si ritrova nel museo della liberazione a Cherbourg.
Cerca divise nei piccoli archivi dei collezionisti.
Cerca ispirazione, ma anche conferme. Conferme tangibili delle storie che aveva letto da bambino, in quell’enciclopedia.
E ritrova alcune di quelle immagini.
Sono li. Dettagli che parlano una lingua che non ha mai dimenticato e che lo hanno guidato fino a quella foto e ai capi che disegna e realizza.
È questa la storia dietro, o dentro, a un prodotto?
Per me, sì. Lo è.
Non riesco a credere nella storia nata in una riunione marketing dal tema: “Come ci posizioniamo quest’anno?”
Quando la storia è vera, il prodotto la contiene. Senza bisogno di raccontarla.
Un prodotto senza progetto, senza coerenza, senza radici, non è un prodotto.
È un’imitazione. Un’idea formalmente corretta, ma priva di senso.
E il cliente, oggi, lo capisce.
Capisce quando un oggetto ha dentro un percorso.
Capisce se è stato cercato, studiato, provato, pensato con una visione vera.
E capisce, soprattutto, se chi lo propone è coerente con ciò che fa e con ciò che è.
Chi compra con consapevolezza, non compra “la storia” in quanto narrazione.
Compra un progetto. Compra una tensione.
Compra il rispetto che il creatore ha avuto nel fare le cose con cura.
E non ha bisogno che glielo racconti.
Ha bisogno di riconoscerlo da solo, guardando, toccando, indossando.
Le persone non comprano più solo prodotti. Ma non comprano nemmeno storie inventate.
Il cliente di oggi — quello che osserva, che si informa, che sceglie — non è più disposto a farsi intrattenere.
Non crede più alle narrazioni di superficie.
Esige prova, coerenza, concretezza.
Vuole sapere chi ha fatto cosa, perché l’ha fatto, con quali materiali, con quale percorso, e con quale responsabilità.
E se una storia viene raccontata, deve poterla verificare.
Non in una brochure. Ma nel prodotto stesso. E nel racconto sincero e umano di chi lo ha pensato.
Per questo, forse, è il momento di smettere di dire che “la gente non compra più prodotti, ma storie”.
Perché la verità è che le persone comprano prodotti che dimostrano di avere dentro una storia vera.
E quella storia — se c’è — non ha bisogno di essere inventata.
Ha solo bisogno di essere vissuta.
E costruita concretamente e coerentemente.
Stato dell'arte

Osservo questo mondo dal 1985.
Non da fuori, non come spettatore. Ma da dentro. Con le mani immerse nei tessuti, la mente affollata di disegni, e una fame costante di capire, imparare, andare a fondo.
Ci entrai quasi per caso. O forse per destino.
Nel 1982 avevo seguito le lezioni di uno dei sarti più importanti di Treviso, un maestro.
Fu il primo a immaginare un corso di stilista basato sulla conoscenza strutturale della materia prima. Il primo a rivoluzionare la modellistica e lo sviluppo taglie, mentre le scuole usavano le "squadre", lui approcciava il sistema con metodi quasi a mano libera e una nuova visione basata su un metodo rivoluzionario chiamato "Tecno". Un punto fermo nella mia carriera. Formai i giovani nella sua stessa scuola per molto tempo, in qualche modo erede e portatore del del suo approccio.
Saltiamo al 1984 forse nel 1985, ero ancora sotto servizio militare, sebbene ascoltassi i Thompson Twins, Gli Human League e Lloyd Cole and the Commotions, mi vestivo preppy, con giacche di Madras, chino stazzonati e le Top Sider ai piedi: la foto mi ritrae con un caro amico, appassionato di moda anche lui, venne scattata a Grado, un giorno di mare, in quel pazzesco periodo che fu la Naja, che ancora oggi ricordo con grande nostalgia.
Durante una breve licenza, sostenni un colloquio con uno studio stilistico che lavorava per alcune case di moda piuttosto note. Passarono mesi — li ricordo bene, lunghi, pieni di guardie e corvée alle latrine — finché, a sorpresa, ricevetti una chiamata.
Mi chiesero di disegnare delle camicie. Una sorta di test.
Ci lavorai giorno e notte, spedii qualche decina di disegni accompagnati da relazioni scritte, una per ogni tema, scritte in quel corsivo pressoché illeggibile che ancora oggi mi caratterizza.
Non c’era internet, non c’era Instagram. Le mie uniche fonti erano le riviste che riuscivo a sfogliare risparmiando ogni lira che mia madre — che faceva letteralmente i salti mortali per mettere insieme un pranzo per i suoi figli — riusciva a passarmi.
PER LUI e L'UOMO VOGUE erano le mie Bibbie.
Le custodivo come oro, tagliavo, osservavo, studiavo.
E quando oggi riguardo quei disegni, ancora conservati con cura, mi sorprendo: non so davvero come io sia riuscito a fare tutto quello senza strumenti, senza riferimenti, senza rete.
Pochi giorni prima del congedo, ricevetti una nuova telefonata: le camicie erano piaciute, erano andate in produzione. Si vendevano bene. Mi offrirono un posto.
E iniziai così.
Non disegnando, non “creando”, come si dice oggi. Ma pulendo il sottoscala, pieno di pezze e odore di tessuti.
Roberto, Il mio maestro — perché tale lo considero — mi affidò il primo incarico: catalogare.
Conoscere le tessiture, le mani, le composizioni. Solo dopo averne classificato e toccato centinaia, mi permise di sedermi accanto a lui e disegnare la prima collezione.
Era il suo modo per insegnarmi che la visione si costruisce sul fare, non sulla superficie.
Da allora sono passati quasi quarant’anni.
Ho lavorato in ogni ambito di questo settore: dalla progettazione al prodotto finito, dalla ricerca alla comunicazione.
Ho avuto il privilegio di affiancare persone visionarie — ne cito una su tutte: Nicola Bardelle.
Ero con lui dal giorno zero, nel 1999, quando in un bar si avvicinò timidamente e mi disse che aveva un’idea. Io, proprio in quei giorni, avevo appena lasciato un’azienda per tornare a un percorso indipendente (che avevo già iniziato nel 1991 e pois sospeso, illudendomi che "essere dentro l'azienda" fosse meglio). Fu l’inizio di una grande avventura.
Nicola non era solo un talento, era un’intelligenza rara, diretta, lucida. Mi volle accanto a sé, e in quei primi anni condividemmo tutto. Ricordo le serate in archivio, lontano da direttori e manager che lui stesso definiva “figure disturbanti”, capaci solo di appesantire la visione.
Una sera, sorpreso da una mia presenza silenziosa, mentre consultavo l'archivio inimmaginabile che Nicola possedeva, lo sentii dire al telefono:
“Sto lavorando con Cristiano… sì, esatto, il poeta.”
Si scusò subito. Perché in questo mestiere, essere un “poeta” è visto come un problema.
Una parola che, in certe stanze, è diventata quasi un insulto: sinonimo di instabilità, di astrattezza, di pericolo per il business.
Ma io non mi offesi.
Anzi.
Facciamo quindi un passo in avanti, siamo nel 2012.
Il mio progetto indipendente è nato proprio come la risposta concreta a quell’etichetta.
Una scommessa personale: investire tutto quello che avevo — denaro, tempo, energie, risorse, visione — per vedere se un “poeta” può produrre concretezza, perché se non lo avessi dimostrato per primo a me stesso, non avrei mai potuto essere un professionista coerente e del valore che ritenevo di avere e con me Silvia, che mi accompagna in questo complicato viaggio.
E i clienti che oggi mi onoro di avere, in Italia e nel mondo, dimostrano che sì, è possibile. Funziona.
Non ci sono dubbi. Quei clienti condividono con noi lo spirito indipendente di 1ST PAT-RN e il voler essere se stessi, lo fanno con la selezione dei prodotti nei loro store e con la loro intelligenza di visione che si traduce in uno scambio costruttivo di idee, spunti, riflessioni.
Lo dimostrano i clienti dello store online, fedeli da più di dieci anni, con cui parlo direttamente, da qualsiasi parte del mondo mi scrivano. E con i nuovi, che finalmente decidono di andare "dentro" a cosa sia un prodotto indipendente e studiarlo, capirlo e acquistarlo.
Questo progetto non era partito come un piano B.
È stato, ed è, il mio modo di dire che la visione può diventare realtà, se ci si lavora con rigore e coerenza.
Che la libertà creativa può generare valore vero, non solo estetica.
Eppure, ancora oggi, mi capita spesso — troppo spesso — di dover “spiegare” cosa faccio.
E proprio a chi mi cerca come consulente.
Parlo con manager, imprenditori, dirigenti. Faccio colloqui.
Vengo contattato per dare una direzione, per portare visione, per "trasformare".
Ma ho la sensazione che il significato stesso della parola consulente — e ancor più della parola designer — si sia sfaldato.
Un consulente è, per definizione, una figura esterna, che viene consultata.
Non esegue, non decora, non compone moodboard per impressionare, magari con immagini fuori contesto che proprio perché non vogliono dire esattamente nulla, abbondano quando non si ha nulla da dire (ne potrei citare decine appesi a quegli uffici stile che ho visitato).
Non porta centinaia di selezioni di tessuti a caso, facendo impazzire i fornitori, che poi non riceveranno mai neppure un metro di ordine.
Un vero consulente ascolta, analizza, comprende, trasforma.
Un designer, se davvero è tale, non disegna vestiti: disegna possibilità.
Eppure, negli ultimi tempi, i colloqui non iniziano più con la domanda:
"Qual è la sua visione per noi?"
Oppure: "Cosa pensa che potremmo fare di davvero significativo?"
No.
Mi chiedono:
"Quanti capi della concorrenza può portarci?"
"Che carrello può comporre per il nostro commerciale?"
"Mi da i capi finiti vero?"
"Vorrei fare una capsule di tre o quattro pezzi, ma deve dire tutto"
E io sorrido. Sorrido, e con educazione, rifiuto.
Perché per fare quel tipo di lavoro, non servo io.
Serve un altro profilo: ecco, magari un commerciale, magari uno di quei “guru” che si muovono bene tra showroom e database, quelli che ti ascoltano distrattamente mentre presenti una collezione e poi, con disarmante semplicità, appoggiano sul tavolo un pantalone della concorrenza dicendo:
“Ecco la soluzione. Facciamo questo, uguale, ma al 30% in meno.”
Segue battito di mani degli "yes man" di turno. Titolari compresi.
Ecco. Se siamo arrivati a questo, forse dovremmo avere il coraggio di fermarci e chiederci:
Che cos'è rimasto del nostro mestiere?
Che cosa significa davvero “creare”, “progettare”, “immaginare”?
E che tipo di futuro vogliamo costruire, se rinunciamo alla visione per inseguire "il carrello della concorrenza"?
Io continuerò a scegliere la visione. Continuerò a essere quel “poeta” che, in una stanzetta prefabbricata ricavata su un piccolo soppalco in magazzino, parlava con Nicola e immaginava un marchio che sì, forse allora era poesia…
Ma oggi è qualcosa di concreto.
Anche se lavorare con questi principi richiede rigore, studio, e una certa solitudine. Ma è lì che, da sempre, nascono le cose che valgono davvero.
post scriptum:
A una recente fiera, un collega mi disse:
“Sai, io devo pur portare a casa la pagnotta. Non me ne frega assolutamente nulla di cosa gli do. Vogliono i capi della concorrenza nel carrello? Eccoli. Tanto non capiscono nulla, e pagano pure!”
E' con questa sua filosofia è uno dei designer più richiesti.
“Ah! Anche sarto?” — Riflessioni su percezione, immagine e giudizio nei social professionali
Qualche giorno fa, scorrendo LinkedIn — il social dedicato al mondo del lavoro e del networking professionale — mi sono imbattuto in un post che mi ha fatto riflettere più del solito.
Un tecnico del settore commentava un’immagine di prodotto tratta dall’e-commerce di un noto brand italiano, sollevando osservazioni sulla qualità percepita e sul valore economico della giacca rappresentata.
Non è mia intenzione entrare nel merito delle opinioni espresse, né discutere il diritto di ciascuno di dire la propria. Del resto, io non sono un sarto, e i prodotti che disegno non si collocano affatto nel campo della sartoria, quindi figuriamoci se posso giudicare quanto espresso dal professionista, anche perché la foto su cu si basava era talmente post-prodotta da non essere quasi reale, ma soprattutto non ho mai visto dal vivo una giacca di quel marchio.
Mi ha colpito però un aspetto che va oltre il singolo post e riguarda il modo in cui, sempre più spesso, ci relazioniamo ai contenuti online, anche (e forse soprattutto) su piattaforme come LinkedIn.
Ciò che ha attirato la mia attenzione, infatti, sono stati i commenti.
Numerosi professionisti del settore — tecnici di produzione, modellisti, consulenti, addetti marketing e vendite — hanno iniziato a elencare difetti, storture, incongruenze. Qualcuno parlava con disappunto del prezzo. Altri indicavano con sicurezza gli errori “imperdonabili” del capo in questione. Qualcuno, mi è parso, si spingeva anche un po’ oltre, arrivando a ipotizzare problemi che forse nella foto nemmeno si vedevano davvero.
In molti casi, sembrava quasi una gara a dimostrare competenza tecnica e spirito critico.
C’è solo un piccolo dettaglio che rende tutto questo paradossale: quella giacca non era reale.
O, per essere precisi: quella foto non rappresentava il capo reale.
Era una rappresentazione digitalmente alterata, una classica immagine “in piano” post-prodotta da un grafico per motivi puramente visivi. Una sorta di “segnaposto” che ha il solo scopo di presentare il capo nel catalogo online. Niente più.
È una prassi diffusissima tra i grandi brand: quasi tutti utilizzano queste immagini per uniformità visiva, poi "entrando" nella scheda prodotto, si possono vedere foto del capo indossato, dei dettagli, le descrizioni tecniche, la composizione e così via. Personalmente, da anni preferisco scegliere un’altra strada per il mio e-commerce: scatti "casalinghi", meno patinati, ma forse autentici. Però questo è un gusto, una scelta stilistica.
E sia chiaro, un po’ di post-produzione è sempre doverosa, una luce, un'ombra, un colore, una asimmetria, è molto importante fare attenzione, nello stesso modo in cui un bravo venditore saprà mettere al meglio un capo in esposizione: è la stessa stessa cosa.
In tal senso, ogni azienda decide come vuol far vedere al pubblico i suoi prodotti, certa che un cliente interessato, se ha dei dubbi, contatterà il customer care dell'azienda e si farà dare spiegazioni.
Il punto è che un’immagine simmetrica, piatta, post-prodotta non è la sede giusta per valutare davvero un capo.
E chi lavora in questo settore dovrebbe saperlo.
La mia riflessione, allora, non riguarda solo quel singolo caso, ma il modo in cui comunichiamo la nostra professionalità.
In un contesto come LinkedIn, dove ci raccontiamo come persone e come lavoratori, cosa dice di noi un commento in cui si critica con forza un prodotto che non si è mai visto né toccato, rappresentato da una foto "segnaposto", presa da uno screenshot?
E soprattutto, ci siamo mai chiesti chi ci legge?
Un potenziale cliente? Un’azienda con cui vorremmo collaborare? Un head hunter che sta cercando proprio un profilo come il nostro?
Che idea si farà della nostra serietà, del nostro approccio, del nostro senso critico — se ci vede giudicare superficialmente un capo, basandoci su una fotografia che non riflette affatto il prodotto reale?
Viviamo in un tempo in cui tutti ci sentiamo spinti a dimostrare competenza, a “dire la nostra”, a far vedere che “non ci facciamo fregare”. Ma forse, ogni tanto, fermarsi a osservare meglio prima di commentare potrebbe farci apparire più consapevoli, più professionali, più seri. Non è questione di essere indulgenti o di evitare il confronto: è questione di profondità. Di riconoscere che non tutto si può capire da un’immagine, che non tutto si può giudicare a colpo d’occhio.
E che, in fondo, un po’ di studio, e un po’ di attenzione in più nel giudicare il lavoro degli altri, non guastano mai.
Soprattutto in uno spazio che, almeno in teoria, dovrebbe raccontare chi siamo e come lavoriamo.
Non vale solo per l'abbigliamento, dovrebbe valere per tutti i temi con cui decidiamo di esporci nei social network. Conoscere per Deliberare.
Mi viene in mente, a proposito, una celebre battuta di un vecchio film con Paolo Villaggio. La Signora Silvani, con il suo tono inconfondibile, dice:
“Ah! Anche poeta?”
Ecco, leggendo certi commenti, mi è venuto spontaneo pensare:
“Ah! Anche sarto?”
Non venite a lamentarvi

Portare la propria conoscenza in un contesto di interscambio è la parte più importante del lavoro di un designer. Non è solo questione di creare, ma di condividere, di mescolare idee, di ricevere e dare valore.
Quando a Follina ho ricevuto la delegazione di Tokyo Knit, incuriosita dal mio progetto 1ST PAT-RN, ho provato un misto di onore e sorpresa. All'estero e in Giappone il mio lavoro gode di un buon rispetto, nel mio paese, resto pressoché sconosciuto, eppure, si erano interessati a una piccola realtà che faceva, ormai da 5 anni, nel 2018 ai tempi del primo meeting, una revisione strutturale della giacca di maglia mai fatta prima, chiedendo il mio contributo a un progetto di sviluppo e integrazione della filiera della maglieria di Tokyo.
Il livello dei collaboratori e dei supporter con cui ho avuto il privilegio di lavorare era incredibile: da Gianni Tozzi ad Arian van Well, da Hirofumi Kurino di United Arrows a Tsutomu Hagihira, presidente dell'istituto della moda Giapponese, Ko Matsubara (che ha diretto quelli che secondo me sono stati gli anni più belli della rivista Popeye e oggi Head of Digital Strategy Office di House Co. Ltd), Hisayo Hidaka, Designer di Scye.
Consulenti strategici, designers, editors, dirigenti con una conoscenza e cultura incredibile, seduti intorno a un tavolo insieme ai più grandi imprenditori dell'industria tessile di maglieria del distretto di Tokyo, tutti con una propensione alla collaborazione all'ascolto, alla condivisone e al rispetto reciproco. No, qui da noi non mi è mai successo. Anzi.
Ho visitato decine di realtà della maglieria del distretto di Tokyo: dalla piccola tintoria indaco con tre dipendenti fino alla struttura super tecnologica. In tutte, ho trovato accoglienza, rispetto, passione, voglia di condividere e collaborare. Persone con esperienze decennali che mi hanno sommerso con la loro conoscenza ma, allo stesso tempo, hanno ascoltato con attenzione. Nessuna chiusura, nessuna difesa sterile del proprio operato, solo la volontà di vedere una visione diversa.
E non solo: ho trovato aziende disposte a supportare 1ST PAT-RN senza chiedere minimi produttivi, anticipi, previsioni di vendita (sic). Solo il desiderio di dare ancora un senso forte a un mestiere che, mi sembra ormai consolidato, da noi, si fossilizza sempre più su schemi retrogradi e autoreferenziali.
A distanza di anni, quell’esperienza mi ha fatto capire molte cose.
Oggi, più che mai, mi è chiaro il motivo per cui in Italia fatichiamo a costruire una filiera tessile davvero coordinata e sinergica, in cui produttori, brand emergenti e tessitori “out of the box” possano collaborare senza essere schiacciati dai soliti paletti, dalle richieste inaccessibili, dai supplementi (ancora oggi! In un momento come questo!) dalle protezioni corporative che servono solo a mantenere lo status quo (senza reale beneficio per nessuno). Si ci sono rare eccezioni, ovvio. Bastano per dare una svolta? Certo che no.
Il punto è semplice: non andremo avanti se non ci svegliamo. Se il mondo delle manifatture, dalla filatura al confezionista, non inizia a leggere il futuro con una chiave nuova. Se non capiamo che l’unione tra piccoli brand, designer veramente emergenti e filiera tessile-produttiva, fa la forza, e che i nuovi valori non sono solo i numeri, ma:
- Chi ti paga e, soprattutto, ti paga in tempo. Puntuale, preciso, senza lamentele, richieste di sconti non dovuti, piagnistei.
- Chi ti insegna nuove tecniche e investe per primo su quelle quando disegna la sua collezione, anche rischiando di non vendere, perché la sperimentazione è rischio, e va condiviso insieme.
- Chi taglia 100 referenze e poi non ti ordina neppure un metro (anzi le da alla concorrenza per farle copiare).
- Chi ti apre gli occhi su visioni diverse, che il perito tessile tradizionale probabilmente ancora ignora. E chi dal tessitore ha l'umiltà di imparare.
- Chi ti spinge a osare un po’ di più.
Oppure, continuate pure a difendere i vostri minimi impossibili da raggiungere, i vostri limiti all'innovazione, i supplementi del 20/30/40/50/100% e alimentare le vostre paure e le vostre chiusure a prescindere.
E poi lamentatevi.
(immagine: copertina della relazione presentata alla commissione TKF durante al consulenza strategica svolta a Maggio 2018)
The New Order | The harmony of knowledge
Today, in the world of international magazines, every month or even every given period they are published, we can say we have at our disposal a wide choice.
We can read about everything and be informed in a complete and essential way.
One of the things that I honestly do not find more from, a long time is the emotion.
Emotion: or the thrill of having in my hands something special, something that can teach me new things and at the same time that can communicate a new vision of things that make up my universe, that's really tuned with myself, with "the present", with good taste and quality, with the excellence of the things done with passion.
A kind of emotion, I remember, that was exactly what I perceived by very few magazines and publications that helped to build my knowledge in my formative years: the first 80's
So I take a cue from my interview, about the 1ST PAT-RN project, which was published by THE NEW ORDER, to introduce to you this outstanding publication.
The work that goes on behind the scenes, to build a high quality project is felt in every detail.
I talk about of interviews with emerging and innovative brands, as well as to persons, designers, actors, musicians and historic brands that have placed in the fashion, design and art some of the most important key points of the past, the present and, for sure, the future, but also graphics and design, the type of images that are posted and great care in every aspect of the conformation.
I was hit by the calibrated use of fonts: sometimes different in every interview, but consistently and elegantly coordinated: we have a "flow of graphics" when reading... and you feel harmony!
Here's what I look for, when I devote myself to the reading of a publication.
Harmony.
And about THE NEW ORDER I have strictly categorized him under "Harmony" in my mental files of inspirations, ideas and enrichment, that inevitably, for a designer are the lifeblood and always will be, because the aroma of paper, ink and the opportunity to touch as well as reading and learning, are the foundations of a methodology that we can not miss.
Do not miss this instrument of culture.





Thank to Mr. James Oliver of THE NEW ORDER for the interview that he made and for the passion that I have read every page of the magazine.
A tailored loop collection | Studio75
In my endless pursuit of sound, vibration and inspiration that only music can give, I always tried to rummage in the "transversal" proposals, made by artists who mix different passions, different sources of inspiration and involved 360 ° in a sort of path simultaneously starting from many different arts, and then, synthesize them into a single, final, decisive one.
And it's not the only one, because all other materialize as decisive, in turn: when fashion, for example, was inspired by the music and then the reverse occurs, or the art of painting on fabric is inspired by a music or at a time when composing a loop, a color is laid on the canvas of a bag or a T-shirt ... strictly striped.
Satsuki Muto and Riki Azuma, of Studio75 and Small Circle of Friends have all this.
They are artists, musicians, are creative, they are passionate.
Satsuki designs a collection of handcrafted pieces of clothes of a beauty almost touching, where natural fabrics blend in amazingly redesigned basic shapes and then often intervenes with drawings made by hand, in a continue play with nature, mountains, sea, trees...
Riki never stops experimenting sounds, born from a knowledge of music that is amazing: almost a mental archive of billion gigabytes where a innermost sound of soul, jazz, funk, latin .... is extrapolated from a hypothetical drawer and redefined and reassembled with one of these magic "boxes" in which, during their live set, he and Satsuki interact with light touches, and they interface in a communion of sound that I find incredible, working on the voice and on vinyl that Riki play on the deck.
The summary of all this, for me, is contained in the "tailoring" collection of loops that are available for download on Bandcamp and that I have collected from the first output.
A series of short stories, ideally linked by a continuum time: in the sense that for me all their issues are a unique playlist that acts as a sound carpet that is on the air I draw, when I think back to my next project, when I need inspiration, when I think...
I find an affinity between their music and the work of the tailor is incredible.
Listening to their loop, we understand how the work of a tailor scissors, cutting a fabric and works with a steam to make him reach the desired shape is identical to that Satsuki and Riki do with micro-pieces of a song, selected samples, among the thousands of vinyl records that are part of their collection, working chisel to tile, to a single "sonic" element of few seconds, a new architecture of elements, that define the philosophy the want to build in the loop...
Many try to do that, it is true.
But in the other examples that I've gathered, listened to and on which I reasoned, something is missing.
I sought in myself what could be and I found out what more there is in the music of Studio75 and Small Circle of Friends an I think it's love.
A love that I feel in their words… I see in their hands when they work… I feel vibrate in their performance when I saw them play live.
If the music for you is something powerful that can motivate you, strengthen you, make you grow, make you excite and inspire, build your own sound path with music by Studio75.
here: http://scof75.bandcamp.com









