“La gente non compra prodotti. Compra storie.” Sì, ma anche no.

C’è una frase che, ormai, rimbalza ovunque.

La si sente ripetere come un mantra, usata per spiegare tutto e il contrario di tutto.

Va bene per le presentazioni aziendali, per le caption social, per dare un’aura di significato anche a ciò che ne ha poco.

È una frase che suona bene. Fa colpo.

Ed è questa:

“Le persone non comprano più prodotti. Comprano storie.”

Per un po’ l’ho ascoltata. Poi ho iniziato a osservarla meglio.

A guardare i contesti in cui viene detta, le situazioni a cui viene applicata.

E più passava il tempo, più mi sembrava una scorciatoia retorica, un modo elegante per non parlare del prodotto.

Per evitare di confrontarsi con la materia, con la qualità, con l’identità vera delle cose.

Così ho iniziato a ragionarci sul serio.

E a chiedermi: ma davvero le persone comprano “storie”? E che tipo di storie?

Cosa intendiamo quando parliamo di “storia dietro a un prodotto”? Siamo sicuri di sapere cosa significhi?

Siamo sicuri che quella “storia” esista davvero — e non sia solo un racconto ben confezionato?

Una storia non è un titolo. Non è un claim d’effetto.

Non è una bio costruita per far bene su un pitch.

Una storia è qualcosa che si può toccare. Che si riconosce, che si dimostra.

Che non ha bisogno di essere raccontata perché si sente.

Pensiamo a un bambino che, crescendo, si perde dentro un’enciclopedia illustrata di storia.

È sempre stata lì, sulla libreria, da quando suo padre l’aveva comprata. Passa le ore a guardare divise militari, cuciture, dettagli. Si sofferma sul giugno del 1944.

Lo colpiscono soprattutto i civili: i volti, gli abiti, il silenzio dentro certe foto. Non sa ancora cosa farà da grande, ma quelle immagini restano.

Alcune in particolare — con quelle giacche, quei tessuti, quelle cravatte — restano come impronte.

Trent’anni dopo, diventato designer, si ritrova nel museo della liberazione a Cherbourg.

Cerca divise nei piccoli archivi dei collezionisti.

Cerca ispirazione, ma anche conferme. Conferme tangibili delle storie che aveva letto da bambino, in quell’enciclopedia.

E ritrova alcune di quelle immagini.

Sono li. Dettagli che parlano una lingua che non ha mai dimenticato e che lo hanno guidato fino a quella foto e ai capi che disegna e realizza.

È questa la storia dietro, o dentro, a un prodotto?

Per me, sì. Lo è.

Non riesco a credere nella storia nata in una riunione marketing dal tema: “Come ci posizioniamo quest’anno?”

Quando la storia è vera, il prodotto la contiene. Senza bisogno di raccontarla.

Un prodotto senza progetto, senza coerenza, senza radici, non è un prodotto.

È un’imitazione. Un’idea formalmente corretta, ma priva di senso.

E il cliente, oggi, lo capisce.

Capisce quando un oggetto ha dentro un percorso.

Capisce se è stato cercato, studiato, provato, pensato con una visione vera.

E capisce, soprattutto, se chi lo propone è coerente con ciò che fa e con ciò che è.

Chi compra con consapevolezza, non compra “la storia” in quanto narrazione.

Compra un progetto. Compra una tensione.

Compra il rispetto che il creatore ha avuto nel fare le cose con cura.

E non ha bisogno che glielo racconti.

Ha bisogno di riconoscerlo da solo, guardando, toccando, indossando.

Le persone non comprano più solo prodotti. Ma non comprano nemmeno storie inventate.

Il cliente di oggi — quello che osserva, che si informa, che sceglie — non è più disposto a farsi intrattenere.

Non crede più alle narrazioni di superficie.

Esige prova, coerenza, concretezza.

Vuole sapere chi ha fatto cosa, perché l’ha fatto, con quali materiali, con quale percorso, e con quale responsabilità.

E se una storia viene raccontata, deve poterla verificare.

Non in una brochure. Ma nel prodotto stesso. E nel racconto sincero e umano di chi lo ha pensato.

Per questo, forse, è il momento di smettere di dire che “la gente non compra più prodotti, ma storie”.

Perché la verità è che le persone comprano prodotti che dimostrano di avere dentro una storia vera.

E quella storia — se c’è — non ha bisogno di essere inventata.

Ha solo bisogno di essere vissuta.

E costruita concretamente e coerentemente.


Stato dell'arte

 


Osservo questo mondo dal 1985.

Non da fuori, non come spettatore. Ma da dentro. Con le mani immerse nei tessuti, la mente affollata di disegni, e una fame costante di capire, imparare, andare a fondo.

Ci entrai quasi per caso. O forse per destino.

Nel 1982 avevo seguito le lezioni di uno dei sarti più importanti di Treviso, un maestro.
Fu il primo a immaginare un corso di stilista basato sulla conoscenza strutturale della materia prima. Il primo a rivoluzionare la modellistica e lo sviluppo taglie, mentre le scuole usavano le "squadre", lui approcciava il sistema con metodi quasi a mano libera e una nuova visione basata su un metodo rivoluzionario chiamato "Tecno". Un punto fermo nella mia carriera. Formai i giovani nella sua stessa scuola per molto tempo, in qualche modo erede e portatore del del suo approccio.

Saltiamo al 1984 forse nel 1985, ero ancora sotto servizio militare, sebbene ascoltassi i Thompson Twins,  Gli Human League e  Lloyd Cole and the Commotions, mi vestivo preppy, con giacche di Madras, chino stazzonati e le Top Sider ai piedi: la foto mi ritrae con un caro amico, appassionato di moda anche lui, venne scattata a Grado, un giorno di mare, in quel pazzesco periodo che fu la Naja, che ancora oggi ricordo con grande nostalgia.
Durante una breve licenza, sostenni un colloquio con uno studio stilistico che lavorava per alcune case di moda piuttosto note. Passarono mesi — li ricordo bene, lunghi, pieni di guardie e corvée alle latrine — finché, a sorpresa, ricevetti una chiamata.
Mi chiesero di disegnare delle camicie. Una sorta di test.

Ci lavorai giorno e notte, spedii qualche decina di disegni accompagnati da relazioni scritte, una per ogni tema, scritte in quel corsivo pressoché illeggibile che ancora oggi mi caratterizza.

Non c’era internet, non c’era Instagram. Le mie uniche fonti erano le riviste che riuscivo a sfogliare risparmiando ogni lira che mia madre — che faceva letteralmente i salti mortali per mettere insieme un pranzo per i suoi figli — riusciva a passarmi.

PER LUI e L'UOMO VOGUE erano le mie Bibbie.
Le custodivo come oro, tagliavo, osservavo, studiavo.
E quando oggi riguardo quei disegni, ancora conservati con cura, mi sorprendo: non so davvero come io sia riuscito a fare tutto quello senza strumenti, senza riferimenti, senza rete.

Pochi giorni prima del congedo, ricevetti una nuova telefonata: le camicie erano piaciute, erano andate in produzione. Si vendevano bene. Mi offrirono un posto.

E iniziai così.

Non disegnando, non “creando”, come si dice oggi. Ma pulendo il sottoscala, pieno di pezze e odore di tessuti.
Roberto, Il mio maestro — perché tale lo considero — mi affidò il primo incarico: catalogare.
Conoscere le tessiture, le mani, le composizioni. Solo dopo averne classificato e toccato centinaia, mi permise di sedermi accanto a lui e disegnare la prima collezione.
Era il suo modo per insegnarmi che la visione si costruisce sul fare, non sulla superficie.

Da allora sono passati quasi quarant’anni.
Ho lavorato in ogni ambito di questo settore: dalla progettazione al prodotto finito, dalla ricerca alla comunicazione.
Ho avuto il privilegio di affiancare persone visionarie — ne cito una su tutte: Nicola Bardelle.
Ero con lui dal giorno zero, nel 1999, quando in un bar si avvicinò timidamente e mi disse che aveva un’idea. Io, proprio in quei giorni, avevo appena lasciato un’azienda per tornare a un percorso indipendente (che avevo già iniziato nel 1991 e pois sospeso, illudendomi che "essere dentro l'azienda" fosse meglio). Fu l’inizio di una grande avventura.
Nicola non era solo un talento, era un’intelligenza rara, diretta, lucida. Mi volle accanto a sé, e in quei primi anni condividemmo tutto. Ricordo le serate in archivio, lontano da direttori e manager che lui stesso definiva “figure disturbanti”, capaci solo di appesantire la visione.

Una sera, sorpreso da una mia presenza silenziosa, mentre consultavo l'archivio inimmaginabile che Nicola possedeva, lo sentii dire al telefono:
“Sto lavorando con Cristiano… sì, esatto, il poeta.”

Si scusò subito. Perché in questo mestiere, essere un “poeta” è visto come un problema.
Una parola che, in certe stanze, è diventata quasi un insulto: sinonimo di instabilità, di astrattezza, di pericolo per il business.

Ma io non mi offesi.
Anzi.

Facciamo quindi un passo in avanti, siamo nel 2012.

Il mio progetto indipendente è nato proprio come la risposta concreta a quell’etichetta.
Una scommessa personale: investire tutto quello che avevo — denaro, tempo, energie, risorse, visione — per vedere se un “poeta” può produrre concretezza, perché se non lo avessi dimostrato per primo a me stesso, non avrei mai potuto essere un professionista coerente e del valore che ritenevo di avere e con me Silvia, che mi accompagna in questo complicato viaggio.

E i clienti che oggi mi onoro di avere, in Italia e nel mondo, dimostrano che sì, è possibile. Funziona.
Non ci sono dubbi. Quei clienti condividono con noi lo spirito indipendente di 1ST PAT-RN e il voler essere se stessi, lo fanno con la selezione dei prodotti nei loro store e con la loro intelligenza di visione che si traduce in uno scambio costruttivo di idee, spunti, riflessioni.

Lo dimostrano i clienti dello store online, fedeli da più di dieci anni, con cui parlo direttamente, da qualsiasi parte del mondo mi scrivano. E con i nuovi, che finalmente decidono di andare "dentro" a cosa sia un prodotto indipendente e studiarlo, capirlo e acquistarlo.

Questo progetto non era partito come un piano B.
È stato, ed è, il mio modo di dire che la visione può diventare realtà, se ci si lavora con rigore e coerenza.
Che la libertà creativa può generare valore vero, non solo estetica.

Eppure, ancora oggi, mi capita spesso — troppo spesso — di dover “spiegare” cosa faccio.
E proprio a chi mi cerca come consulente.
Parlo con manager, imprenditori, dirigenti. Faccio colloqui.
Vengo contattato per dare una direzione, per portare visione, per "trasformare".

Ma ho la sensazione che il significato stesso della parola consulente — e ancor più della parola designer — si sia sfaldato.

Un consulente è, per definizione, una figura esterna, che viene consultata.
Non esegue, non decora, non compone moodboard per impressionare, magari con immagini fuori contesto che proprio perché non vogliono dire esattamente nulla, abbondano quando non si ha nulla da dire (ne potrei citare decine appesi a quegli uffici stile che ho visitato).
Non porta centinaia di selezioni di tessuti a caso, facendo impazzire i fornitori, che poi non riceveranno mai neppure un metro di ordine.

Un vero consulente ascolta, analizza, comprende, trasforma.
Un designer, se davvero è tale, non disegna vestiti: disegna possibilità.

Eppure, negli ultimi tempi, i colloqui non iniziano più con la domanda:
"Qual è la sua visione per noi?"
Oppure: "Cosa pensa che potremmo fare di davvero significativo?"

No.

Mi chiedono:
"Quanti capi della concorrenza può portarci?"
"Che carrello può comporre per il nostro commerciale?"
"Mi da i capi finiti vero?"
"Vorrei fare una capsule di tre o quattro pezzi, ma deve dire tutto"

E io sorrido. Sorrido, e con educazione, rifiuto.

Perché per fare quel tipo di lavoro, non servo io.
Serve un altro profilo: ecco, magari un commerciale, magari uno di quei “guru” che si muovono bene tra showroom e database, quelli che ti ascoltano distrattamente mentre presenti una collezione e poi, con disarmante semplicità, appoggiano sul tavolo un pantalone della concorrenza dicendo:

“Ecco la soluzione. Facciamo questo, uguale, ma al 30% in meno.”

Segue battito di mani degli "yes man" di turno. Titolari compresi.

Ecco. Se siamo arrivati a questo, forse dovremmo avere il coraggio di fermarci e chiederci:
Che cos'è rimasto del nostro mestiere?
Che cosa significa davvero “creare”, “progettare”, “immaginare”?
E che tipo di futuro vogliamo costruire, se rinunciamo alla visione per inseguire "il carrello della concorrenza"?

Io continuerò a scegliere la visione.
Continuerò a essere quel “poeta” che, in una stanzetta prefabbricata ricavata su un piccolo soppalco in magazzino, parlava con Nicola e immaginava qualcosa che sì, forse era poesia…
Ma oggi è qualcosa di concreto.

Anche se richiede rigore, studio, e una certa solitudine.
Perché è lì che, da sempre, nascono le cose che valgono davvero.

(Ma, come mi disse un collega: “Sai, io devo pur portare a casa la pagnotta. Non me ne frega assolutamente nulla di cosa gli do. Vogliono i capi della concorrenza nel carrello? Eccoli. Tanto non capiscono nulla.”)

A modo suo, anche lui… un poeta, no?


“Ah! Anche sarto?” — Riflessioni su percezione, immagine e giudizio nei social professionali

 

Qualche giorno fa, scorrendo LinkedIn — il social dedicato al mondo del lavoro e del networking professionale — mi sono imbattuto in un post che mi ha fatto riflettere più del solito.

Un tecnico del settore commentava un’immagine di prodotto tratta dall’e-commerce di un noto brand italiano, sollevando osservazioni sulla qualità percepita e sul valore economico della giacca rappresentata.

Non è mia intenzione entrare nel merito delle opinioni espresse, né discutere il diritto di ciascuno di dire la propria. Del resto, io non sono un sarto, e i prodotti che disegno non si collocano affatto nel campo della sartoria, quindi figuriamoci se posso giudicare quanto espresso dal professionista, anche perché la foto su cu si basava era talmente post-prodotta da non essere quasi reale, ma soprattutto non ho mai visto dal vivo una giacca di quel marchio.

Mi ha colpito però un aspetto che va oltre il singolo post e riguarda il modo in cui, sempre più spesso, ci relazioniamo ai contenuti online, anche (e forse soprattutto) su piattaforme come LinkedIn.

Ciò che ha attirato la mia attenzione, infatti, sono stati i commenti.

Numerosi professionisti del settore — tecnici di produzione, modellisti, consulenti, addetti marketing e vendite — hanno iniziato a elencare difetti, storture, incongruenze. Qualcuno parlava con disappunto del prezzo. Altri indicavano con sicurezza gli errori “imperdonabili” del capo in questione. Qualcuno, mi è parso, si spingeva anche un po’ oltre, arrivando a ipotizzare problemi che forse nella foto nemmeno si vedevano davvero.

In molti casi, sembrava quasi una gara a dimostrare competenza tecnica e spirito critico.

C’è solo un piccolo dettaglio che rende tutto questo paradossale: quella giacca non era reale.

O, per essere precisi: quella foto non rappresentava il capo reale.

Era una rappresentazione digitalmente alterata, una classica immagine “in piano” post-prodotta da un grafico per motivi puramente visivi. Una sorta di “segnaposto” che ha il solo scopo di presentare il capo nel catalogo online. Niente più.

È una prassi diffusissima tra i grandi brand: quasi tutti utilizzano queste immagini per uniformità visiva, poi "entrando" nella scheda prodotto, si possono vedere foto del capo indossato, dei dettagli, le descrizioni tecniche, la composizione e così via. Personalmente, da anni preferisco scegliere un’altra strada per il mio e-commerce: scatti "casalinghi", meno patinati, ma forse autentici. Però questo è un gusto, una scelta stilistica.

E sia chiaro, un po’ di post-produzione è sempre doverosa, una luce, un'ombra, un colore, una asimmetria, è molto importante fare attenzione, nello stesso modo in cui un bravo venditore saprà mettere al meglio un capo in esposizione: è la stessa stessa cosa.
In tal senso, ogni azienda decide come vuol far vedere al pubblico  i suoi prodotti, certa che un cliente interessato, se ha dei dubbi, contatterà il customer care dell'azienda e si farà dare spiegazioni.

Il punto è che un’immagine simmetrica, piatta, post-prodotta non è la sede giusta per valutare davvero un capo.

E chi lavora in questo settore dovrebbe saperlo.

La mia riflessione, allora, non riguarda solo quel singolo caso, ma il modo in cui comunichiamo la nostra professionalità.

In un contesto come LinkedIn, dove ci raccontiamo come persone e come lavoratori, cosa dice di noi un commento in cui si critica con forza un prodotto che non si è mai visto né toccato, rappresentato da una foto "segnaposto", presa da uno screenshot?

E soprattutto, ci siamo mai chiesti chi ci legge?

Un potenziale cliente? Un’azienda con cui vorremmo collaborare? Un head hunter che sta cercando proprio un profilo come il nostro?

Che idea si farà della nostra serietà, del nostro approccio, del nostro senso critico — se ci vede giudicare superficialmente un capo, basandoci su una fotografia che non riflette affatto il prodotto reale?

Viviamo in un tempo in cui tutti ci sentiamo spinti a dimostrare competenza, a “dire la nostra”, a far vedere che “non ci facciamo fregare”. Ma forse, ogni tanto, fermarsi a osservare meglio prima di commentare potrebbe farci apparire più consapevoli, più professionali, più seri. Non è questione di essere indulgenti o di evitare il confronto: è questione di profondità. Di riconoscere che non tutto si può capire da un’immagine, che non tutto si può giudicare a colpo d’occhio.

E che, in fondo, un po’ di studio, e un po’ di attenzione in più nel giudicare il lavoro degli altri, non guastano mai.

Soprattutto in uno spazio che, almeno in teoria, dovrebbe raccontare chi siamo e come lavoriamo.
Non vale solo per l'abbigliamento, dovrebbe valere per tutti i temi con cui decidiamo di esporci nei social network. Conoscere per Deliberare.

Mi viene in mente, a proposito, una celebre battuta di un vecchio film con Paolo Villaggio. La Signora Silvani, con il suo tono inconfondibile, dice:

“Ah! Anche poeta?”

Ecco, leggendo certi commenti, mi è venuto spontaneo pensare:

“Ah! Anche sarto?”


Non venite a lamentarvi

Portare la propria conoscenza in un contesto di interscambio è la parte più importante del lavoro di un designer. Non è solo questione di creare, ma di condividere, di mescolare idee, di ricevere e dare valore.

Quando a Follina ho ricevuto la delegazione di Tokyo Knit, incuriosita dal mio progetto 1ST PAT-RN, ho provato un misto di onore e sorpresa. All'estero e in Giappone il mio lavoro gode di un buon rispetto, nel mio paese, resto pressoché sconosciuto, eppure, si erano interessati a una piccola realtà che faceva, ormai da 5 anni, nel 2018 ai tempi del primo meeting, una revisione strutturale della giacca di maglia mai fatta prima, chiedendo  il mio contributo a un progetto di sviluppo e integrazione della filiera della maglieria di Tokyo.

Il livello dei collaboratori e dei supporter con cui ho avuto il privilegio di lavorare era incredibile: da Gianni Tozzi ad Arian van Well, da Hirofumi Kurino di United Arrows a Tsutomu Hagihira, presidente dell'istituto della moda Giapponese, Ko Matsubara (che ha diretto quelli che secondo me sono stati gli anni più belli della rivista Popeye e oggi Head of Digital Strategy Office di House Co. Ltd), Hisayo Hidaka, Designer di Scye.

Consulenti strategici, designers, editors, dirigenti con una conoscenza e cultura incredibile, seduti intorno a un tavolo insieme ai più grandi imprenditori dell'industria tessile di maglieria del distretto di Tokyo, tutti con una propensione alla collaborazione all'ascolto, alla condivisone e al rispetto reciproco. No, qui da noi non mi è mai successo. Anzi.

Ho visitato decine di realtà della maglieria del distretto di Tokyo: dalla piccola tintoria indaco con tre dipendenti fino alla struttura super tecnologica. In tutte, ho trovato accoglienza, rispetto, passione, voglia di condividere e collaborare. Persone con esperienze decennali che mi hanno sommerso con la loro conoscenza ma, allo stesso tempo, hanno ascoltato con attenzione. Nessuna chiusura, nessuna difesa sterile del proprio operato, solo la volontà di vedere una visione diversa.

E non solo: ho trovato aziende disposte a supportare 1ST PAT-RN senza chiedere minimi produttivi, anticipi, previsioni di vendita (sic). Solo il desiderio di dare ancora un senso forte a un mestiere che, mi sembra ormai consolidato, da noi, si fossilizza sempre più su schemi retrogradi e autoreferenziali.

A distanza di anni, quell’esperienza mi ha fatto capire molte cose.
Oggi, più che mai, mi è chiaro il motivo per cui in Italia fatichiamo a costruire una filiera tessile davvero coordinata e sinergica, in cui produttori, brand emergenti e tessitori “out of the box” possano collaborare senza essere schiacciati dai soliti paletti, dalle richieste inaccessibili, dai supplementi (ancora oggi! In un momento come questo!) dalle protezioni corporative che servono solo a mantenere lo status quo (senza reale beneficio per nessuno). Si ci sono rare eccezioni, ovvio. Bastano per dare una svolta? Certo che no.

Il punto è semplice: non andremo avanti se non ci svegliamo. Se il mondo delle manifatture, dalla filatura al confezionista, non inizia a leggere il futuro con una chiave nuova. Se non capiamo che l’unione tra piccoli brand, designer veramente emergenti e filiera tessile-produttiva, fa la forza, e che i nuovi valori non sono solo i numeri, ma:

  • Chi ti paga e, soprattutto, ti paga in tempo. Puntuale, preciso, senza lamentele, richieste di sconti non dovuti, piagnistei.
  • Chi ti insegna nuove tecniche e investe per primo su quelle quando disegna la sua collezione, anche rischiando di non vendere, perché la sperimentazione è rischio, e va condiviso insieme.
  • Chi taglia 100 referenze e poi non ti ordina neppure un metro (anzi le da alla concorrenza per farle copiare).
  • Chi ti apre gli occhi su visioni diverse, che il perito tessile tradizionale probabilmente ancora ignora. E chi dal tessitore ha l'umiltà di imparare.
  • Chi ti spinge a osare un po’ di più.

Oppure, continuate pure a difendere i vostri minimi impossibili da raggiungere, i vostri limiti all'innovazione, i supplementi del 20/30/40/50/100% e alimentare le vostre paure e le vostre chiusure a prescindere.

E poi lamentatevi.

(immagine: copertina della relazione presentata alla commissione TKF durante al consulenza strategica svolta a Maggio 2018)


The New Order | The harmony of knowledge

Today, in the world of international magazines, every month or even every given period they are published, we can say we have at our disposal a wide choice.

We can read about everything and be informed in a complete and essential way.

One of the things that I honestly do not find more from, a long time is the emotion.

Emotion: or the  thrill of having in my hands something special, something that can teach me new things and at the same time that can communicate a new vision of things that make up my universe, that's really tuned with myself, with "the present", with good taste and quality, with the excellence of the things done with passion.

A kind of emotion, I remember, that was exactly what I perceived by very few magazines and publications that helped to build my knowledge in my formative years: the first 80's

So I take a cue from my  interview, about the 1ST PAT-RN project, which was published by THE NEW ORDER, to introduce to you this outstanding publication.

The work that goes on behind the scenes, to build a high quality project is felt in every detail.
I talk about of interviews with emerging  and innovative brands, as well as to persons, designers, actors, musicians and historic brands that have placed in the fashion, design and art some of the most important key points of the past, the present and, for sure, the future, but also graphics and design, the type of images that are posted and great care in every aspect of the conformation.

I was hit by the calibrated use of fonts: sometimes different in every interview, but consistently and elegantly coordinated: we have a "flow of graphics" when reading... and you feel harmony!

Here's what I look for, when I devote myself to the reading of a publication.

Harmony.

And about THE NEW ORDER I have strictly categorized him under "Harmony" in my mental files of inspirations, ideas and enrichment, that inevitably, for a designer are the lifeblood and always will be, because the aroma of paper, ink and the opportunity to touch as well as reading and learning, are the foundations of a methodology that we can not miss.

Do not miss this instrument of culture.


Thank to Mr. James Oliver of THE NEW ORDER for the interview that he made and for the passion that I have read every page of the magazine.


A tailored loop collection | Studio75

In my endless pursuit of sound, vibration and inspiration that only music can give, I always tried to rummage in the "transversal" proposals, made by artists who mix different passions, different sources of inspiration and involved 360 ° in a sort of path simultaneously starting from many different arts, and then, synthesize them into a single, final, decisive one.

And it's not the only one, because all other materialize as decisive, in turn: when fashion, for example, was inspired by the music and then the reverse occurs, or the art of painting on fabric is inspired by a music or at a time when composing a loop, a color is laid on the canvas of a bag or a T-shirt ... strictly striped.

Satsuki Muto and Riki Azuma, of Studio75 and Small Circle of Friends have all this.

They are artists, musicians, are creative, they are passionate.

Satsuki designs a collection of handcrafted pieces of clothes of a beauty almost touching, where natural fabrics blend in amazingly redesigned basic shapes and then often intervenes with drawings made by hand, in a continue play with nature, mountains, sea, trees...

Riki never stops experimenting sounds, born from a knowledge of music that is amazing: almost a mental archive of billion gigabytes where a innermost sound of soul, jazz, funk, latin .... is extrapolated from a hypothetical drawer and redefined and reassembled with one of these magic "boxes" in which, during their live set, he and Satsuki interact with light touches, and they interface in a communion of sound that I find incredible, working on the voice and on vinyl that Riki play on the deck.

The summary of all this, for me, is contained in the "tailoring" collection of loops that are available for download on Bandcamp and that I have collected from the first output.

A series of short stories, ideally linked by a continuum time: in the sense that for me all their issues are a unique playlist that acts as a sound carpet that is on the air I draw, when I think back to my next project, when I need inspiration, when I think...

I find an affinity between their music and the work of the tailor is incredible.

Listening to their loop, we understand how the work of a tailor scissors, cutting a fabric and works with a steam to make him reach the desired shape is identical to that Satsuki and Riki do with micro-pieces of a song, selected samples, among the thousands of vinyl records that are part of their collection, working chisel to tile, to a single "sonic" element of few seconds, a new architecture of elements, that define the philosophy the want to build in the loop...

Many try to do that, it is true.

But in the other examples that I've gathered, listened to and on which I reasoned, something is missing.

I sought in myself what could be and I found out what more there is in the music of Studio75 and Small Circle of Friends an I think it's love.

A love that I feel in their words… I see in their hands when they work… I feel vibrate in their performance when I saw them play live.

If the music for you is something powerful that can motivate you, strengthen you, make you grow, make you excite and inspire, build your own sound path with music by Studio75.

here: http://scof75.bandcamp.com


Interview by Fashion We Like Blog

Mr. Haris Stav is the editor of one of the best blog I ever read.


"Fashion We Like celebrates fashion and the people behind it. With our interviews and editorial features we present those whose work and ideas render the spirit of our time"

Mr. Stav, make some questions to me:

Cristiano Berto is the designer and co-founder of the Italian label 1ST PAT-RN. Taking its name from a military term which identifies the first prototype of a garment, the brand was launched in 2011. Its aim is to produce small, targeted collections that are inspired by civil, military, and utility patterns, while all of its items are entirely made in #Italy.

The three essential things a man should know about #style are…
Learn and study: knowledge is power. Be simple and humble, always. Choose only (and this is mandatory) quality and well-manufactured items: always think about quality, not quantity.

Read the full Interview here:
http://www.fashionwelike.com/my-style/cristiano-berto


"This is not a Vintage Product" era il 1998

Nell’arco della mia carriera come designer iniziata intorno al 1985, mi sono trovato diverse volte le mani sporche, per così dire, di indaco.

Una delle fasi più interessanti è stata quella del 1998/9 quando lasciai il brand MET (in cui avevo svolto il ruolo di creazione dei concetti di branding: ovvero la creazione del logo e di tutto un concept del prodotto che quando arrivai in azienda agli esordi del brand era solo embrionale) per iniziare un’avventura in un gruppo di lavoro, all'interno di un'azienda che in qualche modo aveva scelto una via più “pura” di prodotto, ovvero che intendeva sperimentare, ma soprattutto lasciare al designer spazi creativi svincolati dal fattore puramente commerciale del copia-incolla.

Era un'occasione unica.

Ricordo perfettamente che in quel momento quasi tutti gli attori Italiani della scena denim seguivano due filosofie: una, quella puramente commerciale, legata a prodotti fin troppo ricchi di tagli, accessori, lavaggi e ogni sorta di ammennicolo che personalmente non mi è mai interessata, perchè tutti si copiavano tra di loro in un’immenso gioco di clonazioni ridondanti cosa che mi ha sempre disturbato filosoficamente...  l’altra, quella dell’autenticità.

Attenzione: per autenticità non sempre parliamo di brand che, come adesso, ripropongono in chiave moderna concetti derivati dallo studio del vintage, piuttosto parliamo di un tentativo che, spesso mal riuscendo, si proponeva di riprendere il cliché “degli Americani” o dei “Giapponesi”, copiando quello che invece tali mostri sacri da ormai decenni proponevano come loro preciso DNA (e va fatto notare che oggi, dopo quindici anni ci ritroviamo, in un certo senso, allo stesso punto di prima).

Ovvio che bisognasse trovare altre vie se si voleva davvero cercare di sviluppare un progetto denim che avesse senso.

Il brand che dovevo reinventare si chiamava KBS, che di suo, non aveva alcun significato… o forse lo aveva… ma non ricordo che senso avesse: di certo nulla aveva a che fare con la mission che l’azienda aveva in mente, perchè sentii subito l’esigenza di trovarne uno.

Il primo atto fu quindi dare un senso all’acronimo e bastò solo pensare a cosa stavamo facendo: eravamo un team di persone appassionate al jeans, dal modellista al product manager… avevamo tanto da imparare ma anche tanto da dare, una sorta di insegnamento da tramandare… ma anche un’insegnamento da ricevere, imparando dagli errori e dalle personalità professionali che ci seguivano tecnicamente, ecco che quindi quel progetto era quasi come una scuola, una scuola che portava e dispensava conoscenza di un prodotto, di un tessuto, di un colore: il Blue del Jeans.

 Knowledge Blue School

K.B.S.

 Il secondo punto era quello di lavorare sul prodotto, ma ancor più sull’immagine che avrebbe dovuto comunicare la nostra capsule.

Presi la mia Fuji da 3,2 megapixel, che avevo appena comprato all’aeroporto di Gatwick (un oggetto che in quei giorni mi sembrava il futuro tecnologico impersonato) e mi misi a scattare delle foto nel piccolo laboratorio in cui lavoravamo, presi alcuni capi del mio archivio, fotografai pure quelli.

Mi misi all’opera anche su un lettering moderno, per etichette  ed hangtags, ispirato a concetti industriali che già in MET avevo iniziato ad esplorare e che è rimasto con me fino ad oggi.

Pensavo, a quel punto, che bisognava si partire dal Vintage, ma bisognava anche fare qualcosa che altri non facevano, avere coraggio... o almeno provarci.

Nacque il concetto di ADVANCED VINTAGE, una sperimentazione basata sul concetto che io avevo definito, fin dagli inizi della mia carriera, con l’acronimo M.W.D (Military, Workwear, Denim) e che ho sempre trasferito in ogni progetto che ho fatto… in qualche modo, un’essenza di questa traspare sempre, anche oggi.

 

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ADVANCED VINTAGE

This is not a Vintage Article

This is not a Vintage Product

Questo era quello che dichiaravamo.

Era una presa di posizione coraggiosa, in un momento in cui tutto era definito “vintage” ma spesso era “finto vintage”.

Per noi ADV voleva dire, riprendere capi storici, rivederli e riposizionarne il contesto.

Se necessario snaturarli.

Se necessario reinventarne idealmente la ricollocazione nel presente.

I capi KBS erano “atemporali” sembravano “vintage”: ma erano modernissimi.

Nacque da tutto questo un booklet, che vediamo nelle foto sotto (insieme ad alcuni scatti del sottoscritto mentre lavorava al progetto) il quale serviva a comunicare la nostra idea, il concetto di prodotto e la filosofia che coraggiosamente l’azienda aveva sposato e approvato senza eccessive riserve, anzi con il massimo appoggio (cosa rara al giorno d’oggi dove la poca capacità di visione degli imprenditori produce, nel maggiore dei casi, un loop continuo di prodotti usa e getta, spesso senza alcun senso se non quello di intasare gli armadi degli sprovveduti che li acquistano).

Presentammo la capsule in un giorno di pioggia, davanti a una rete vendita che forse non aveva capito bene cosa stavamo facendo e cosa avevamo fatto partire con quel progetto …  ma che ci applaudì con grande trasporto e si mise subito al lavoro, portando risultati incredibili.
Penso che il modello “Spin” fu il primo five pocket Italiano con aspetto “vintage”, usurato, con rotture e trattamenti manuali ad entrare in un negozio di lusso Italiano: Raspini di Firenze.

C’erano pantaloni e giubbotti “trucker” con la cimosa in esterno, che ruotavano in senso orario e antiorario rispetto all’asse della gamba, li avevamo chiamati “Spin” e, appunto,  divennero la punta di diamante della collezione.
Laserature piazzate, con i primi rudimenti di quella tecnologia, pantaloni chino in gabardina “Super Libertador” , trattata e usurata localmente, t-shirt con grafiche stampate ad acqua e poi spruzzate con acqua stessa, per delavarle…

Presi spunto da tutto quello che mi piaceva, senza cercare nessi, senza strizzare l'occhio agli aspetti commerciali... mi ispirai alla musica (il Northern Soul, l'Acid Jazz, i Mods…) i fit regular ben bilanciati (in un momento in cui imperversava lo streetwear!) ai lettering minimalisti e industriali (che da sempre facevano parte della mia scuola di pensiero) e buttai tutto in una serie di pochi capi, ma che bastavano per lanciare un messaggio molto chiaro: se non hai coraggio di metterti in gioco e cercare di proporre qualcosa di tuo… di diverso, se non hai coraggio di rischiare, di investire, di provare e di sbagliare e se non hai il coraggio di spingere la tua rete vendita a credere in te e portare avanti le cose in cui tu credi… beh… come azienda hai già fallito nell’impresa.

Messaggio ancor più vero oggi, se ci ripenso.

KBS prosegui con un buon successo per diverse stagioni, sebbene crescendo cominciò ad essere soggetta a decisioni che purtroppo tendevano a snaturarne il concetto iniziale.

Cambiarono quindi i paradigmi che avevano costituito il team e la finalità del progetto e io lasciai il brand per dedicarmi a un progetto che oggi ritengo molto significativo per la mia carriera e che come sempre vedeva di nuovo il lavoro del “dottore” (come ero stato definito all'epoca) all’opera: rilanciare e ricreare l’indennità di un brand che aveva bisogno di rinascere sotto l’egida di una nuova era.

Un progetto donna mi attendeva.

E non sarebbe stato facile.

Per niente.

Ne parleremo.


 

 

 

 

 

 

 

 


Pitti Filati meet Milano Unica for a new adventure: Italian Denim Makers

C'è una ragione in più per visitare  le prossime edizioni di Pitti Uomo e le fiere di Pitti Filati e Milano Unica:

nasce DENIM ITALIANO - Italian Denim Makers

Il logo ufficiale del progetto

 

Un progetto al quale ho avuto il grande piacere di dare un mio contributo, interpretando la collezione Uomo denominata "VERO" che parla del denim autentico e delle origini.

Il progetto nasce sotto la direzione artistica di Angelo Figus, un insider del prodotto e della concezione creativa legata allo stesso, che ha saputo cogliere la filosofia di prodotto che più fa parte della mia visione del mondo denim  in questo momento.

La mia interpretazione di questo mondo, coinvolge ancora una volta la mia passione per lo studio delle uniformi da lavoro Italiane ed Europee che vanno dagli anni 50 agli anni 70, pragmatiche,
minimaliste, basate sulla grande tradizione dell'industria Italiana che produceva un "workwear" di grande qualità.

Il progetto si sviluppa attraverso un total look che comprende una varietà di tessuti… non solo denim.

Infatti all'interno del progetto le realtà produttive Italiane si presentano con una moltitudine di competenze che arricchisce il lavoro del designer, dandogli la grande opportunità di sperimentare e di introdurre lavorazioni, concetti, aspetti ... partendo dal filo di cucitura  al bottone particolare e arrivando al trattamento: attraverso un percorso che coinvolge confezionisti e tessutai, questi ultimi hanno messo infatti a disposizione una grande selezione di materia prima.

Non solo denim quindi: ma anche fustagno tinto capo, lane e cotone da sovratingere, chambray e tele spazzino, jersey e piquet da trattare con finissaggi indaco che ricreano effetti e mani eccezionali.

Potrete ammirare i capi nell'ambito dell'installazione che verrà realizzata a Pitti Filati e Milano Unica.

Un lavoratore Italiano, negli anni 50

 

Il labelling, che ho disegnato in esclusiva per il progetto, riprende la ricerca fatta su capi originali, reinterpretata in chiave moderna, attraverso l'utilizzo di materiali autentici, ma rinnovati negli aspetti di qualità e ricchezza del dettaglio, come ad esempio quello delle etichette tessute con filati "grisaglia" e i cartoncini lavorati a mano, per dare un'aspetto vissuto diverso in ogni singolo cartellino.

Questa è la vera qualità Italiana.

Le etichette del progetto VERO prodotte da REDMARK

 

Ecco una piccola preview del mood di prodotto che ho pensato (Tessuto Candiani): twill indaco 3/1 trama carboncino, cimosa.
Applicato su Herringbone tintura Indaco (Tessuto Candiani)

A first sight of the collection

 

Ringrazio, tra gli altri attori (tutti altissimi professionisti) lo staff  della GTM Gruppo Tessile Molisano per la eccezionale professionalità nel sapere interpretare con grande conoscenza e passione la mia visione di prodotto: questa è una dimostrazione più che evidente della grande tradizione di "Artiginalità Indutriale" che solo l'Italia può dare.

La grande trasformazione dei prodotti avverrà nei prossimi giorni con l'intervento della lavanderia Bonotto di Cimadolmo-Treviso che si prefigge lo scopo di lavorare allo stesso modo: "Artigianalità-Industriale" cercando di trasferire nel trattamento "casalingo" eseguito con tecniche top secret il gusto del prodotto da me disegnato ... sarà una sfida!

Sono onorato di partecipare e ringrazio tutti coloro che mi hanno dato questa grande opportunità di espressione creativa.

 

Vi aspetto a Firenze e Milano per parlare di denim e Italianità!


PRESS RELEASE UFFICIALE


Un progetto che nasce dalla speciale collaborazione tra Pitti Immagine e Milano Unica, dedicato alla filiera del denim italiano, alla sua naturale proiezione internazionale e alle nuove opportunità che questo offre al mercato globale di alta gamma, per le sue qualità uniche.

In scena un campionario dei diversi capi di abbigliamento e di accessori a cui il denim può essere applicato: un guardaroba appositamente realizzato da una selezione delle 30 migliori aziende che – tra tessitori, confezionisti, accessoristi, ricamifici, lavanderie e fashion designers– rappresentano la grande filiera italiana del denim.

Una sorta di fabbrica verticale, con la direzione artistica del fashion designer Angelo Figus e Maurizio Brocchetto.

A project produced through a special cooperation agreement between Pitti Immagine and Milano Unica dedicated to the production chain of Italian denim, its international reach and the new opportunities it can offer the high-end global market because of its unique qualities. A various “denim-suitable” garments and accessories’ showcase: items from a wardrobe specifically created for the project by a group of the 30 best makers – textile mills, clothing and accessory manufacturers, embroidery shops, laundries and fashion designers – that represent the great Italian denim chain. A sort of vertical factory, under the artistic direction of fashion designers Angelo Figus and Maurizio Brocchetto.. 

Le aziende coinvolte nel progetto Denim Italiano sono:

Albiate 1830, Berto E.G. Industria Tessile, Blue Line Project/ Dress Line, BMC, Bonotto Lavanderia Stireria, Candiani Denim, Confezioni Vestire, Cucirini Rama, Dienpi, Elleti, Ethica, Fais Jeans, Gruppo Tessile Molisano, I.T.V. Industria Tessile del Vomano, Inwool Jersey, Itac Lab, Italdenim, J-VAL, Lan Europa, Martelli Lavorazioni Tessili, Leomaster, Redmark, Remmert, Ribbontex, Spring ’85, Stamperia Toscana, T.B.M., Wash Italia, Zip GFD.

Tra i designer che hanno dato il loro contributo creativo al progetto ci sono:

Cristiano Berto, Kristian Guerra, Lara Canal, Lucia Rosin, Maurizio Zaupa, Valerio Baronti.

Special thanks to

3Chic, Dalde, Dipama Italia, Filippo Terzi, Filtess Export, Project, Serigrafia Bernardi, Shima Seiki Italia, Smart Leather

Set up

Alessandro Moradei

PITTI IMMAGINE UOMO (Firenze, 17/20 giugno)

PITTI IMMAGINE FILATI (Firenze, 2/4 luglio)

MILANO UNICA (Milano, 9/11 settembre)

 



The Little Red Book | New York 1944

I've found this in a local flea market.

I feel something modest in looking at the words written here, thinking about those who belonged to this small phone book.